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A CURA DI GIULIA D'ANDREA

Fatture per operazioni soggettivamente inesistenti: condizioni per la detrazione dell’IVA versata

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A CURA DI
GIULIA D'ANDREA

Nota a Sentenza Commissione Tributaria Regionale Napoli, Sez. Staccata di Salerno, Sez. V, 13 giugno 2016, n. 5487

Pres. Cosma – Rel. De Camillis

Nota a Sentenza a cura di Giulia D’Andrea.

Le condizioni che devono sussistere per la deduzione dei costi e dell’iva in ipotesi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

Con la sentenza in rassegna i Giudici di seconde cure di Napoli, Sezione staccata di Salerno, aggiungono un altro tassello alla vexata quaestio riguardante il trattamento fiscale di costi rappresentati da fatture soggettivamente inesistenti su cui si fondano numerosi casi di contenzioso tributario.
Il “casus belli” per il quale sono stati aditi i Giudici della Commissione Tributaria Regionale di Napoli sez. staccata di Salerno, di cui alla sentenza in commento, nasce da una verifica della Guardia di Finanza di Casalnuovo a ditta individuale individuata dalla GDF come “società cartiera”, in quanto”… la predetta ditta non aveva mai presentato dichiarazione dei redditi, mai istituito o tenuto alcuna contabilità, aveva omesso il versamento dell’iva ed aveva la sede legale, amministrativa ed operativa presso l’abitazione dell’amministratore, era inoltre risultata sconosciuta a quanti avessero intrattenuto con essa rapporti commerciali …” da tale segnalazione della GDF di Casalnuovo, la Guardia di Finanza di Salerno controllava la società committente/cessionaria avendo, quest’ultima, intrattenuto rapporti commerciali con l’asserita cartiera; sulla scorta di tale attività di controllo scaturiva un PVC a carico della società committente/cessionaria nel quale si giudica la condotta da essa posta in essere come “facente parte di un sistema articolato di frode”, si procede, pertanto, al recupero ai fini IRES e IVA di costi per un totale di euro 1.593.103, con il recupero di IVA per euro 318.620,83, in quanto rappresentati da fatture ritenute dall’organo verificatore quali soggettivamente inesistenti. La predetta società committente/cessionaria presenta ricorso presso la Commissione Tributaria Provinciale di Salerno che lo accoglie con la Sentenza n.400/2012, l’Agenzia delle Entrate presenta appello e separando in appello il thema decidendum relativo alle due imposte (IVA e IRES), delimita il contenzioso alla sola imposta IVA riconoscendo dunque la legittimità della deduzione ai fini IRES di costi rappresentati da fatture soggettivamente inesistenti, il collegio giudicante di cui alla sentenza de qua si pronuncia infine positivamente sulla possibilità di detrazione dell’iva rappresentata da fatture qualificate dall’ Ufficio come soggettivamente inesistenti respingendo il ricorso in appello presentato dall’Agenzia Delle Entrate. Per meglio comprendere il percorso logico giudico che ha portato i giudici del gravame a respingere il ricorso dell’appellante Agenzia delle Entrate, occorre esaminare e comparare il diritto nazionale in campo IVA e la giurisprudenza di legittimità nazionale ed europea sul punto; la materia oggetto della controversia de qua infatti è stata sottoposta più volte al vaglio dei Giudici della Corte di giustizia Europea i quali hanno dettato le linee guida a cui i Giudici nazionali devono ispirarsi per dirimere le controversie; ciò per la particolare natura di matrice comunitaria del tributo oggetto del contenzioso, non senza considerare però la necessità da parte dei giudici nazionali di non limitarsi ad applicare tout court i principi affermati dal giudice europeo ma di adattarli con adeguato senso critico alla particolare fattispecie sottoposta al loro vaglio, tant’è che anche nell’affrontare l’annoso problema della ripartizione dell’onere della prova i Giudici comunitari rimettono ai Giudici nazionali la decisione circa la “regola” da applicare di volta in volta. Preliminarmente si ravvisa l’esigenza di qualificare giuridicamente i due casi in cui si può incorrere quando si è in presenza di una fattura “falsa”, più precisamente vale la pena di ricordare che la fattura legittima il soggetto cessionario alla detrazione dell’imposta laddove il documento sia completo in tutte le sue parti così come prescritto dalla legge, ma ciò non è sufficiente, infatti in applicazione della Direttiva 2003/112/Ce la Corte Europea stabilisce la necessità di considerare prevalente il profilo “sostanziale” su quello “formale” sia sotto l’aspetto oggettivo che soggettivo, apertis verbis l’indicazione in fattura dell’imposta e di tutti gli adempimenti formali è condizione necessaria ma non sufficiente per il legittimo esercizio della detrazione (Corte di Giustizia,13 dicembre 1989, C-342/87), il funzionamento perfetto del meccanismo dell’IVA può essere inficiato da patologie che potrebbero comportare l’inibizione della detrazione dell’imposta al cessionario, dunque a seconda del caso che di volta in volta si presenta distinguiamo due fattispecie: -l’operazione non si è mai realizzata (inesistenza oggettiva); -l’operazione si è compiuta ma il soggetto cedente o prestatore è diverso da quello indicato sul documento de qua, di contro il cessionario o il committente ne è stato realmente il destinatario (inesistenza soggettiv . Ciò premesso, la sentenza in commento riguarda il secondo tipo di fattispecie, ovvero il caso su cui si fonda verte su un’ operazione commerciale realmente avvenuta, ma che ha asseritamente interessato soggetto diverso dall’emittente della fattura; qualificare un’operazione come “soggettivamente inesistente” comporta conseguenze diverse ai fini Ires e ai fini IVA; per completezza di trattazione, anche se la questione esula dal thema decidendum della sentenza de qua, occorre sottolineare come in materia si ravvisi una linea di demarcazione precisa tra le due imposte, si osservi infatti, quando si parla di imponibilità IRES di costi rappresentati da fatture “soggettivamente inesistenti”, come la normativa si sia nel tempo evoluta fino a considerare come deducibili ai fini IRES i costi rappresentati da fatture “soggettivamente false”, infatti a norma dell’art.14, comma 4 bis, della legge 24 dicembre 1993, n.537, nella formulazione introdotta con l’art.8, D.L. 2 marzo 2012, n.16, conv. modif. con L.26 aprile 2012, n.44, e come da ultimo chiarito nella Circ. Agenzia delle Entrate n. 32/2012, è stato introdotto il principio di diritto in virtu’ del quale sono deducibili i costi esposti in fatture o altri documenti aventi 51 analogo rilievo probatorio, relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti (non utilizzati direttamente per commettere reati) sempre che si tratti di costi che, a norma dell’art.109 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi 22/12/1986, n. 917, non siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (cfr.Cass., n. 10167 del 2012, seguita da Cass. n.3258 del 2013); la ratio legis è da ricercare nella circostanza che i beni o i servizi su cui si fonda il documento sono realmente entrati a far parte della sfera patrimoniale del cessionario anche se provenienti da soggetto diverso da quello che ha formalmente emesso il documento e lo sono anche qualora il soggetto ricevente il documento falso abbia consapevolmente partecipato al disegno evasivo, è pertanto corretta l’imputazione di tali voci di costo nel conto economico della società e nulla osta alla loro deducibilità sul piano fiscale avendo il cessionario sostenuto il costo e pagato il prezzo anche se a soggetto differente da quello che ha effettivamente prestato il servizio o fornito il bene; resta inteso che tale impianto logico si fonda sull’assunto che sia stata provata l’assenza dei presupposti dell’illecito penale (Sez. 5, n. 23626 del 11/11/2011). Orbene per la medesima fattispecie criminosa è invece controversa la possibilità di detrazione dell’iva da parte del cessionario, a prescindere dal fatto che l’imposta sia stata o meno pagata al cedente, in quanto seppure la cessione o la prestazione sia realmente avvenuta il fisco contesta la possibilità della detrazione dell’IVA all’acquirente del servizio o dei beni; la discriminante in tale fattispecie risulta essere, come vedremo meglio più avanti, la “cosciente” partecipazione del cessionario all’evento criminoso; più precisamente viene a determinarsi, secondo un orientamento più rigido, un evento prorompente nell’ambito del sistema IVA che ne altera le caratteristiche giuridiche e formali, infatti “…la detrazione IVA è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che effettua la cessione o la prestazione”.“Non entrano nel conteggio del dare ed avere ai fini IVA le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazione fatturate, in quanto tali fatture riguardano operazione inesistenti per quanto concerne il rapporto relativo alle operazione fatturate” Cass. Sez. n.3n.10394 del 14/01/2010 Gerotto, Rv.246327; viene in concreto ad essere carente, analizzando il tenore letterale dell’art.19 d.p.r. 633/1972, l’aspetto soggettivo dell’operazione, cioè il tributo viene ad essere considerato come “isolato” dalla massa di operazioni poste in essere perché non facente parte del meccanismo di compensazione naturale dell’imposta in quanto “viziata” per la mancanza di elemento fondamentale e necessario (Cass.6229/2013); in aggiunta la Cassazione con la Sent. n. 15374 del 2002 ha statuito che in tema di IVA, la fatturazione effettuata in favore di soggetto diverso da quello effettivo non è riconducibile ad una ipotesi di fatturazione con “indicazioni incomplete o inesatte” di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art.41, comma 3, né a quella di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui la operazione è effettuata, prescritta dall’art.21, comma 2, n.1 stesso decreto, di conseguenza deve essere necessariamente riconducibile ad un’operazione inesistente. Invero il sistema dell’IVA si poggia sul presupposto che tale imposta sia versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili, mentre il versamento dell’iva ad un soggetto non operativo apre la strada al recupero dell’indebito dell’iva stessa. Tale principio è stato affermato anche dalla Corte CE, nella decisione n.78 del 2003. Non si può per contro dimenticare che ai sensi dell’art.226 Direttiva 2006/112/CE e dell’art. 21 D.P.R. 633/72 la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo, purché sia redatta rispettando gli standard di forma e contenuto prescritti (Cass. 18710/2005), il soggetto passivo ha il diritto di portare in detrazione l’iva versata e in linea di principio tale diritto non può essere soggetto a limitazioni, pertanto per inibire la possibilità di esercitare tale diritto l’amministrazione finanziaria deve dimostrare che l’operazione commerciale o non è stata mai posta in essere oppure è stata realizzata da soggetti diversi da quelli formalmente indicati e lo può fare, secondo consolidata giurisprudenza, anche con presunzioni semplici (Sent. Cass. 29396/2008; 17572/2009; 9476/2010; 15741/2012; n. 2935/2015 e da ultimo Sent. 25545 e 25538 depositate il 27/10/2017), solo in tal caso si inverte l’onere delle prova a carico del contribuente che quindi deve dimostrare il contrario; in linea generale tale assunto trova il suo parametro normativo nell’art. 2697 cc, e nel più generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi, laddove la produzione di un atto amministrativo da parte dell’Amministrazione Finanziaria non adeguatamente supportato da prove oggettive andrebbe ad intaccare i principi costituzionalmente garantiti dall’art.97 Cost. di buon andamento ed imparzialità, e il diritto ad una buona amministrazione garantito dall’art.41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Invero, sulla dibattuta questione della ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente non vi sono nella Giurisprudenza italiana posizioni univoche, ma nel corso degli anni si sono succedute sentenze spesso contrastanti tra di loro; fino alla fine del 2011 la Cassazione aveva stabilito nella maggioranza dei casi che fosse a carico dell’Amministrazioni l’onere della prova (Cass. 4 febbraio 2011, n.2692, 26 settembre 2008, n.24201, 6 ottobre 2009, n.21317, 29 luglio 2009, n.1023, 19/10/2007, n.29153, 23 settembre 2005, n.18710), successivamente si rinvengono numerose pronunce che avallano il recupero a tassazione da parte dell’Amministrazione finanziaria di costi rappresentati da fatture soggettivamente false anche in presenza di soli elementi indiziari, in tali ipotesi l’Ufficio considera il coinvolgimento dell’acquirente alla frode anche per il solo fatto di aver intrattenuto rapporti con l’evasore (A. Iorio “Le più frequenti contestazioni del fisco”). In tale contesto è stato introdotto proprio dalla Corte di Giustizia Europea il cosiddetto principio della “buona fede” ai fini della detraibilità dell’IVA relati52 53 va ad operazioni soggettivamente inesistenti, principio che oramai ha “cittadinanza” anche nel nostro ordinamento, il concetto è sapientemente racchiuso nella locuzione di matrice comunitaria “sapeva o avrebbe dovuto sapere del comportamento illecito “, Il fisco 39/2015. Secondo gli eurogiudici la buona fede del contribuente è sempre presunta, pertanto essa può essere messa in discussione dall’Amministrazione finanziaria solo quando riesca a dimostrare la presenza di elementi probatori, anche in via presuntiva, che dimostrino contemporaneamente: -la divergenza soggettiva tra chi ha emesso la fattura e l’effettivo cessionario che ha realmente posto in essere l’operazione o la cessione; -la consapevolezza del cessionario di aver partecipato al meccanismo fraudolento o comunque la sua scarsa diligenza nel valutare le caratteristiche soggettive del soggetto con cui ha intrattenuto relazioni commerciali. L’approccio comunitario è maggiormente garantista rispetto a taluni giudici nazionali: infatti laddove i primi “fanno dipendere il venir meno del diritto alla detrazione dell’imposta versata come conseguenza di un dovere di diligenza fiscale, i giudici nazionali collegano la perdita del diritto alla detrazione quale conseguenza del divieto di scomputare il tributo corrisposto a soggetti diversi dal cedente”, in sede comunitaria si parte dalla regola secondo cui l’imposta è detraibile in nome del principio di neutralità, in ambito domestico, invece, si ragiona sull’assunto della generale indetraibilità dell’IVA versata a fronte di operazioni soggettivamente simulate. Da tale visione comunitari consegue che l’Amministrazione finanziaria che intende far valere un suo diritto in giudizio “deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” (art. 2697 cc), stante la regola secondo cui l’iva non può incidere un soggetto che in assoluta buona fede abbia pagato l’imposta e ricevuto la prestazione o il bene fatturato senza aver partecipato all’evento fraudolent,,ciò nel rispetto del principio generale di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, escludendo un sistema di “responsabilità’ oggettiva” che lederebbe oltremisura gli interessi del singolo e andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario (cfr. Corte Giust. UE, 21 Giugno 2012 C-80/11) secondo l’approccio comunitario il diritto alla detrazione IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti viene negato solo quando il cessionario, usando la propria diligenza, avrebbe potuto ragionevolmente avvedersene (Corte di Giust. UE, 6 settembre 2012, C-324/11), è chiaro quindi un sistema garantista del diritto alla detrazione rispetto al più generale dovere di contrastare in maniera oggettiva le frodi. Il principio del “sapere” viene introdotto in maniera chiara con la pronuncia OPTIGEN CGCE, sentenza 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03, C-484/03, in tale sentenza la Corte di Giustizia europea tutela la posizione fiscale del soggetto che inconsapevolmente è coinvolto in un comportamento illecito ma che “non sapeva o non poteva sapere” della fittizietà soggettiva dell’operazione, per gli eurogiudici il diritto alla detrazione dell’imposta versata deve essere assolutamente tutelato e si sacrifica solo in presenza di elementi oggettivi, infatti analizzando le pronunce del giudice europeo non si può non sottolineare come il giudizio di consapevolezza del cessionario non si esaurisca in una valutazione meramente soggettivo-psicologica; in particolare nella sentenza C-439/04 Alex Kittel si afferma che detta responsabilità debba essere desunta da “elementi oggettivi”, realizzando così una sorta di “oggettivazione” della responsabilità; è bene sottolineare come, inoltre, vi sia un diverso approccio da parte dei Giudici Comunitari sul piano dell’onere probatorio asseconda che si parli di “frodi carosello” o di frodi “semplici”, infatti quando si è in presenza di “frodi carosello” secondo la Corte di Giustizia Europea, l’Amministrazione finanziaria, alla luce di elementi oggettivi, dovrebbe dimostrare la partecipazione alla frode da parte del cessionario, il quale potrebbe non sapere che l’operazione a valle o a monte di quella in cui è stato coinvolto presenta aspetti fraudolenti, alla stessa stregua ci si atteggia nei confronti delle cosiddette “frodi semplici”; diversamente, secondo i Giudici Nazionali, non vi è l’onere della prova a carico dell’Amministrazione finanziaria per i documenti soggettivamente inesistente laddove via sia una semplice simulazione che coinvolge tre soggetti (fornitori, interposto e cliente), l’inconsapevolezza del cliente è considerato “caso di scuola” e l’azione amministrativa di accertamento potrà fondarsi quasi esclusivamente sull’inesistenza della transazione (Documento del 15 giugno 2015 FNC e Scuola di Polizia Tributaria), più precisamente nel caso di frodi semplici, una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri che la prestazione non è stata resa dal fatturante perché inidoneo ad effettuarla in quanto mancante di requisiti organizzativi, nonché di dotazioni strumentali e personali, attesa la prossimità dei rapporti commerciali che non contempla la possibilità di intermediari tra cedente e cessionario, la fattispecie si configura quale frode sic et simpliciter in quanto non può, secondo tale interpretazione, il cessionario non essere consapevole dell’intento fraudolento, con la conseguenza che viene inibita la possibilità di portare in detrazione l’imposta versata, senza la necessità di ulteriore onere probatorio da parte dell’Amministrazione finanziaria, in conclusione la giurisprudenza nazionale ritiene l’indirizzo Europeo perseguibile per le sole “frodi carosello”; in aggiunta secondo un’interpretazione più restrittiva la Corte di Cassazione con la sentenza n.19530/2011 ritiene che per le “frodi carosello” il meccanismo criminale è tale da far “presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale”. In definitiva la Corte di Giustizia Europea dal punto di vista dell’onere probatorio non distingue, a differenza della giurisprudenza nazionale, tra “frodi carosello” e “frodi semplici” e, con un approccio garantista, stabilisce che deve essere compito dell’Amministrazione finanziaria, sia nell’uno che nell’altro ca- so, dimostrare che il soggetto passivo “era o avrebbe dovuto essere a conoscenza” dell’esistenza di un’evasione, dove le prove devono essere obiettive e non riconducibili allo stato soggettivo del soggetto che fattura l’operazione. ”.(vedi Il Sole 24 ore “Giudici divisi sulle frodi carosello”del 13 maggio 2013).

Conclusioni

La sentenza in commento sembra propendere per la tesi maggiormente garantista avallata dai giudici comunitari: infatti, nonostante nel caso di specie la ditta cedente abbia tutte le caratteristiche di “società cartiera”, dinanzi alla prova fornita dal contribuente di aver ricevuto e pagato la merce indicata nei documenti oggetto del rilievo, viene salvaguardato il diritto alla detrazione stabilito da D.P.R. 633/1972 e dalla Sesta Direttiva CEE, seppure nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di cui alla sentenza de qua la prova fornita dal contribuente si basi solo su elementi formali che nelle dinamiche distorte di frodi fiscali potrebbero comunque essere organizzati e preordinati in modo da far “apparire” l’operazione criminale realizzata aderente ai canoni di una normale operazione commerciale, di segno contrario alla Sentenza in rassegna sembrano essere le Sentenze 8132/11 e 6229/13 dove si afferma che l’ignoranza inconsapevole è stata esclusa in assenza in capo all’emittente della fattura di dotazione personale e strumentale, ovvero la prova che la prestazione non è stata eseguita dal fatturante costituisce, secondo una più recente giurisprudenza, elemento sintomatico di assenza di “buona fede”; nella Sentenza in commento, dunque, i giudici di seconde cure ancorano la propria decisione al “principio del sapere” e della “buona fede” maggiormente garantista di stampo comunitario (Il Fisco n. 35/2015). Il collegio giudicante della sentenza de qua, in definitiva, è particolarmente sensibile alla protezione del diritto del cessionario alla detrazione dell’IVA così come previsto dall’art.17 della sesta direttiva,diritto che viene negato solo allorquando l’operatore “sapeva o avrebbe dovuto sapere che con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA (punto 56 Sentenza C-439/04 Alex Kittel) considerando quale elemento discriminante la “buona fede” che non permette al cessionario di accorgersi dell’avvenuta frode, ciò in quanto non vi è la presenza di alcun segnale di palese anomalia nel sistema commerciale di cui egli ha fatto parte (anomalie nei prezzi, nelle consegne, nelle modalità’ di pagamento); si propende, in definitiva, per una visione comunitaria del concetto di “buona fede”, discostandosi leggermente dal concetto della “consapevolezza” nazionale affermato nella sentenza n.6229/2013 della Corte di Cassazione che rappresenta necessariamente l’analisi delle cautele e delle ragionevoli precauzioni poste in essere, nel concreto, dal soggetto (vedi Il Fisco 19/2014). Dall’analisi della sentenza oggetto del presente lavoro restano dubbi riguardanti la pericolosità di un uso distorto della locuzione “sapeva o avrebbe potuto sapere”, infatti se è incontrovertibile che nella Sentenza in commento i Giudici di seconde cure interpretano la fattispecie nel senso più favorevole al contribuente, non si può sottacere il fatto che lo stesso principio viene spesso utilizzato dai giudici del gravame in senso contrario, in tal caso l’interrogativo da porsi è relativo alla correttezza di una tale impostazione, laddove si arriva a negare un diritto attribuito dalla legge legandolo a un concetto così vago come quello della “consapevolezza” o addirittura della “possibile consapevolezza” ( “avrebbe potuto sapere”), non vi è nessuna norma del nostro ordinamento che nega la possibilità di portare in detrazione l’imposta versata sulla base di una mera conoscenza del comportamento fraudolento del cedente, a complicare ulteriormente il quadro è la querelle relativa all’ oggetto di tale conoscenza e cioè la conoscenza della diversità soggettiva dell’effettivo cedente rispetto a quello indicato sul documento, oppure la conoscenza del mancato versamento dell’IVA da parte del soggetto cedente? Correttamente la pronuncia della Cassazione n.17377/2009 individua l’oggetto della consapevolezza richiesta al cessionario nella diversità tra il cedente effettivo e quello reale, mentre naturalmente la consapevolezza non può riguardare la circostanza che l’IVA a monte non sia versata; in definitiva dalla portata degli interrogativi non risolti in maniera univoca da norme ben precise sembra vacillare il principio di legalità e di certezza del diritto, ponendo il contribuente in una posizione scivolosa e legata in maniera pericolosa all’interpretazione e alla sensibilità del Collegio giudicante. Diversa è invece l’impostazione comunitaria infatti in tale ambito la locuzione “sapeva o avrebbe potuto sapere” viene utilizzata pro-contribuente, ovvero l’elemento soggettivo viene utilizzato dopo aver ravvisato la presenza di un elemento oggettivo già pregiudicante (di nullità assoluta del negozio sottostante) e viene utilizzato per consentire la possibilità di detrazione al cessionario soggetto che ha partecipato ad un’operazione già identificata come viziata da elementi fraudolenti, l’elemento soggettivo per i Giudici comunitari (diversamente dai Giudici nazionali) da solo non è sufficiente a negare la possibilità di detrazione, ma deve essere necessariamente supportata da un precedente elemento oggettivo riscontrato.

Giulia D’Andrea

Sentenza Commissione Tributaria Regionale Napoli, Sez. Staccata di Salerno, Sez. V, 13 giugno 2016, n. 5487

Pres. Cosma – Rel. De Camillis

IVA – Fattura soggettivamente inesistente – Detrazione dell’IVA versata dal cessionario – Condizioni

Le fatture soggettivamente inesistenti sono fatture emesse (per un’operazione reale) da un soggetto diverso da quello che ha effettivamente posto in essere la prestazione o la cessione. In tal caso il cessionario o committente non può detrarre l’IVA pagata perché, avendo versato l’imposta a un soggetto diverso dall’effettiva controparte della transazione, apre la strada a un indebito recupero tributario e, di conseguenza, crea un evento dirompente per il complessivo sistema dell’IVA. Ciò si deduce dall’art. 21, comma 7°, D.P.R. n. 633/1972, che non prevede la detrazione ma solo l’obbligo del versamento all’erario dell’IVA indicata nella fattura inesistente: l’IVA della fattura inesistente è “fuori conto” e la relativa obbligazione dev’essere di conseguenza “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò sesso, dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” e IVA “a monte”, che presiede il meccanismo di detrazione. Tale impostazione, tuttavia, risulta stemperata dai principi di tutela dell’affidamento e di certezza del diritto, in base ai quali la detrazione dell’IVA non può essere negata al cessionario o al committente in buona fede, che, cioè, dimostri di non aver avuto (e non aver potuto avere) la consapevolezza di partecipare, col proprio acquisto, a un illecito fiscale. Nel processo tributario non penale, ciò si traduce nel diritto a detrarre l’IVA a condizione che il committente o il cessionario provi che la controparte appariva legittimata a ricevere il pagamento dell’imposta in base a circostanze univoche e che l’operazione è effettivamente sussistente, inerente e nel preciso ammontare indicato.

Svolgimento del processo

Il sig. P.A., nella qualità di legale rappresentante della ditta “T.P. SpA” con sede in Battipaglia (SA), rappresentato e difeso dal dott. C.C., con ricorso notificato all’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Salerno, impugnava Avviso di Accertamento, anno 2007, notificato in data 9.6.2011. Il provvedimento impugnato era stato emesso a seguito di pvc, redatto in data 4.3.2011, all’esito di una verifica fiscale effettuata dalla GGFF. Salerno a carico della Società ricorrente. L’attivazione della verifica seguiva la segnalazione pervenuta dalla Guardia di Finanza di Casalnuovo, la quale, con nota del 17.2.2011, comunicava al Nucleo di Salerno che, nel corso di una verifica fiscale a carico della ditta individuale “C. di B.G.”, ritenuta dai verificatori, all’esito degli esperiti controlli, soggetto “cartiera”, erano state individuate n. 42 fatture, emesse dal predetto B. nei confronti della T.P. per l’importo complessivo di € 1.593.103,38 in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti. La Guardia di Finanza di Casalnuovo aveva appurato che la predetta ditta non aveva mai presentato alcuna dichiarazione dei redditi, non aveva mai istituito o tenuto alcuna contabilità, aveva omesso il versamento dell’IVA, aveva sede legale, amministrativa ed operativa presso l’abitazione del suo titolare, B.G., era risultata totalmente sconosciuta ai soggetti economici con i quali risultava aver intrattenuto rapporti commerciali e non aveva mezzi o dipendenti per l’esercizio dell’attività. Sulla scorta di quanto segnalato dal Nucleo di Casalnuovo, la Guardia di Finanza di Salerno, in data 28.2.2011, iniziava attività ispettiva nei confronti della T.P. SpA per controllare i rapporti intercorsi con la ditta “C. di B.G.”. Esaminava tutta la documentazione amministrativo-contabile attinente i rapporti economici intercorsi tra le ditte. All’esito del controllo, riscontravano che la Società ricorrente aveva, ai fini delle imposte dirette, detratto il costo documentato dalle fatture di cui innanzi, e, ai fini IVA, aveva provveduto alla detrazione 48 della relativa imposta, ragion per cui provvedevano alla constatazione dell’indeducibilità dei predetti costi e della indetraibilità dell’IVA, ritenendo indubbio che, nel caso in esame, i costi sostenuti dalla T.P. fossero riconducibili a fatture soggettivamente inesistenti. Sempre ai fini delle imposte dirette, ritenendo la condotta posta in essere da parte della T.P. rientrante in un sistema articolato di frode cui risultava preordinata l’emissione delle fatture ad opera del soggetto “cartiera”, veniva ritenuto indeducibile il relativo costo ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 14, comma 4 bis, della legge 537/1993, in base al quale nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6 del TUIR, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Con l’Avviso impugnato, si è proceduto al recupero a tassazione ai fini IRES e IRAP di costi a fronte di operazioni inesistenti per € 1.593.103,00 mentre ai fini IVA, in ragione della indetraibilità di tale imposta laddove assolta su fatture per operazioni inesistenti, si è recuperato l’importo di € 318.620,83 applicando 1’aliquota del 20% sull’imponibile recuperato. Il ricorrente ha impugnato il provvedimento, insistendo sulla effettività delle operazioni contestate, in quanto la merce è stata realmente acquistata e immessa nel ciclo produttivo aziendale, e sulla illegittimità della pretesa per non aver, l’Ufficio, provato la relativa colpevolezza. Tutta la merce, secondo il ricorrente, è stata consegnata con documenti di accompagnamento, presa in carico in magazzino ed impiegata nella produzione, e tutte le forniture, che si presumono oggetto di frode, sono state regolarmente saldate attraverso mezzi di pagamento trasparenti (bonifici ed assegni bancari). Le considerazioni cui sono pervenute i verbalizzanti non sono suffragate da alcuna idonea analisi dell’azienda e dei cicli produttivi, ma si sono basate su preconcetti legati alla ditta ritenuta “evasore totale”, senza tener conto del principio di buona fede e senza una disamina serena delle reali situazioni della T.P., società che è nel settore da oltre trenta anni, estranea ad ogni ipotesi di meccanismi fraudolenti. Chiedeva l’annullamento dell’atto impugnato, ritenendo non dovute le pretese fiscali, la pubblica udienza. L’Ufficio, costituitosi in giudizi o con memoria prot. 291074 del 11.11.2011, osservava che, nella circostanza, non era dall’effettivo utilizzo dei prodotti che si rilevava la mancanza del coinvolgimento della Società nella ipotesi criminosa rilevata dagli accertatori. Ciò che rilevava era la inesistenza giuridica di uno dei soggetti coinvolti nei rapporti commerciali che avevano portato alla emissione dei documenti fiscali in contestazione, prescindendo totalmente dalla valutazione circa l’effettività delle operazioni. Anzi, secondo l’Ufficio, siffatte frodi vedono sempre la partecipazione, quale destinatario delle fatture soggettivamente inesistenti, un soggetto economicamente reale che è il beneficiario della frode e che è l’acquirente dei beni della cartiera, provenendo i prodotti da quest’ultima solo cartolarmente, mentre di fatto si riferiscono ad altra ditta, molto spesso con sede in altro Stato dell’Unione Europea. La ditta C. è risultata totalmente priva di qualsivoglia capacità imprenditoriale e il suo titolare non ha saputo fornire alcun elemento circa i rapporti commerciali in questione. Non ha fornito alcuna documentazione amministrativo-contabile della ditta che è risultata avere la sede presso la sua abitazione. Quanto al principio di colpevolezza, l’Ufficio richiama i principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità, in base ai quali il contribuente ha l’onere di dimostrare che è incolpevole e provare la sua assoluta ignoranza alla partecipazione di una frode fiscale. Ai sensi della legge n. 537/1993, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato e, nella specie, i costi recuperati a tassazione sono fittizi in quanto coperti da fatture false e quindi diretta espressione di un comportamento costituente reato. Concludeva per il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio come da notula. La Società in data 8/03/2012 depositava memorie illustrative. Costituitosi il contraddittorio nei termini essenziali sopra succintamente esposti, la Commissione Tributaria Provinciale Salerno sez. 1, udienza 22/03/2012, con sentenza n 400, accoglieva il ricorso. Compensava le spese. L’Agenzia Entrate Salerno in data 19/04/2013 presentava appello; riteneva ingiusta la sentenza e chiedeva l’accoglimento dell’appello, la pubblica udienza con condanna alle spese come da notula. La ricorrente in data 14/05/2013 presentava controdeduzioni, confermava la legittimità del proprio operato e chiedeva la conferma della sentenza. All’odierna udienza, della quale le parti avevano ricevuto rituale avviso, presente per la ricorrente dott. G.P., per l’ufficio il dott. F. F., dopo l’esposizione dei fatti ad opera del Giudice relatore, la causa veniva riservata a decisione. 49 Motivi della decisione La Commissione, esaminati gli atti e valutate le argomentazioni, ritiene che l’appello è infondato e non meritevole di accoglimento per le seguenti motivazioni. Il Collegio ritiene che occorre delimitare, preliminarmente, il tema di indagine di questo grado. Il rappresentante dell’ufficio ha dichiarato a verbale che era cessata la materia del contendere limitatamente alle II.DD, poiché l’ufficio non intendeva più insistere sul punto e che il giudizio doveva continuare limitatamente all’Imposta IVA e accessori. Ne consegue che l’appello deve intendersi rinunciato per la parte relativa alle IIDD e la sentenza di prime cure deve intendersi passata in giudicato su tale questione. Il giudizio deve essere limitato alla debenza o meno dell’imposta IVA. Il Collegio osserva che le fatture soggettivamente inesistenti riguardano i casi in cui il documento viene emesso per una prestazione o una cessione realmente avvenuta, ma si presume che l’emittente (prestatore o cedente) non è quello che effettivamente ha fatto l’operazione. Non si è, quindi, in presenza della fittizietà dell’operazione (oggettivamente inesistente) ma di un documento che sarebbe stato emesso da chi non ne ha titolo. La recente decisione della Suprema Corte (Sez. 5, n. 23626 del 11.11.2011), anche in relazione a precedenti determinazioni di diverso contenuto, ha avuto modo di chiarire che ai fini della determinazione del reddito di impresa, i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti dal committente/cessionario (così come va negato il diritto alla detrazione dell’imposta IVA effettivamente versata) ove non ricorra la prova dell’assenza dei presupposti dell’illecito penale, integrando invero tale operazione, tradizionalmente, il reato di falso documentale, rilevante sia come concorso nell’emissione di fattura falsa, sia come utilizzazione a fini di evasione; infatti, la derivazione dei costi da un’attività integrante illecito penale – espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa- comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi medesimi. Per operazione soggettivamente inesistente, il diritto alla detrazione dell’imposta effettivamente versata e quello alla deduzione dei costi sostenuti da parte del committente/cessionario deve ritenersi inevitabilmente subordinato all’assenza dei presupposti dell’illecito penale. Altrimenti, verrebbe a mancare l’indefettibile requisito (sia della detrazione d’imposta sia della deduzione dei costi) rappresentato dalla relativa inerenza all’impresa, intesa come rapporto tra un costo e lo svolgimento della specifica attività che costituisce ragion d’essere stessa dell’impresa, che è onere del contribuente comprovare (cfr. Cass. 13205/03,11109/03). Infatti – lo stesso legislatore, nel precludere l’ammissione in deduzione di costi e spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato ( L. n. 537/1993, art. 14, c. 4 bis, introdotto dalla L. n. 289/2002, art. 2, c. 8) – la derivazione dei costi da attività integrante illecito penale, in quanto espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività istituzionale dell’impresa, non può che comportare la rottura, già in termini oggettivi, del nesso di “inerenza” tra i costi medesimi e quell’attività (cfr. Cass. 4750/10, 1950/07). Con specifico riguardo alla deducibilità dei costi, ciò comporta, sul piano della distribuzione dell’onere della prova, che, se l’Agenzia dimostri che l’operazione cui la fattura si riferisce è soggettivamente inesistente, compete al contribuente provare l’insussistenza di ipotesi penalmente rilevanti, in base alla regola, secondo cui, la ricorrenza dei presupposti di una deduzione, riducendo questa l’imponibile, va provata dal contribuente. E secondo l’attuale tendenza giurisprudenziale, il principio di non coinvolgimento nel processo fraudolento deve essere provato a carico del ricorrente, cui dovrebbe essere riconosciuta la non conoscenza di circostanze illecite o, quanto meno, la buona fede, tenendo presente che, in presenza di elementi probatori forniti dall’Ufficio a sostegno della propria tesi, è onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni, tenendo presente che, in caso di contestazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non rileva la presenza di documenti contabili formalmente regolari o l’effettività delle transazioni. In applicazione di tali principi, al committente/cessionario può essere riconosciuto il diritto a detrarre l’IVA “solo a condizione che provi che la controparte venditrice appariva legittimata a ricevere il pagamento dell’IVA in base a circostanze univoche”. Nella circostanza, la posizione giustificativa della Società pone l’accento sul risultato della produzione, non altrimenti raggiungibile se non con l’utilizzo delle materie prime comunque acquisite. Il calcolo effettuato per dimostrare il reale utilizzo delle materie prime per il realizzo dei beni finiti, dimostrerebbe la buona fede della Società che avrebbe ricevuto la merce, riportata in contabilità, senza rendersi conto di una fraudolenta situazione di evasione che si riporta ad un reato di danno a carico di altre aziende. Ne deriva, come affermato dalla stessa Corte (Cass. n. 9537 del 29-4-2011 – Cass. Pen. N. 41444 del 14.11.2011) che l’utilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti si ricollega al costo effettivamente sostenuto dalla Società, con possibilità, quindi, della sua considerazione ai fini della dichiarazione. Si tratta, cioè, di costi effettivamente sostenuti anche se relativi a documenti emessi da altri soggetti rispetto a quelli indicati, in una situazione in cui il concetto di illecito penale viene, ai fini tributari, valutato in ragione dell’effettività delle prestazioni e della ipotesi di non evasione fiscale. Con riguardo al tema della detraibilità dell’IVA, esclusa (cfr. Cass. 4750/10, 17377/07, 5718/07, 6378/06) la riconducibilità della fattispecie a quella dell’emissione di fattura recante indicazioni incomplete o inesatte (previste dal D.P.R. n. 633/1972, art. 41, c. 3) e a quella di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui è effettuata l’operazione (prevista dal precedente art 21, c. 2 n. 1), si rileva che, in ipotesi di emissione della fattura da parte di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione, viene a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione dell’IVA, costituita dall’effettuazione di un’operazione, giacché questa (riferendosi al D.P.R. n. 633/1972, art. 19, c. 1, all’imposta relativa alle “operazioni effettuate”) deve ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione (v. Cass. 23987/09, 5719/07). Si osserva, inoltre, che la previsione del D.P.R. n. 633/1972, art. 21, c. 7 – secondo la quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura – è, con riguardo all’ipotesi considerata, esplicita nel senso di imporre il versamento dell’imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione viene, infatti, letta nel senso che il tributo viene ad essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. n. 633/1972, art. 19. E ciò per il rilievo che il versamento dell’IVA ad un soggetto che non sia la genuina controparte – aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta (cfr. Cass. 4750/10, 5718/07, 14337/02) – è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema IVA, essendo questo finalizzato a che l’imposta sia versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili, perché la compensi con l’imposta, a sua volta, corrisposta per l’acquisto di beni e di servizi (v. Cass. 4750/10, 309/06, 12353/05). Tale impostazione risulta stemperata (con effetto anche sull’ordinamento interno) dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia C.E., che ha escluso che, in funzione dei principi della tutela dell’affidamento e della certezza del diritto, l’esercizio del diritto alla detrazione IVA possa essere negato al committente/cessionario in buona fede, che, cioè, dimostri di non aver avuto (e non aver potuto avere, avendo in proposito adottato tutte le ragionevoli precauzioni) la consapevolezza di partecipare, con il proprio acquisto, ad illecito fiscale (cfr. sent. 6.7.2006 nelle cause riunite C439/04 e C-440/04 e sent. 12.1.2006 nelle cause riunite C-354/03, C-355/03 e 484/03). Alla stregua delle considerazioni che precedono ed atteso che il criterio (che, peraltro, riconduce ad unità il trattamento della detrazione dell’IVA e quello della deduzione dei costì ai fini dell’imposizione diretta, di fronte al fenomeno della fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti) non è contraddetto, ma, anzi, confortato da Cass. 1147/10, che, in presenza di elementi atti ad asseverare la ricorrenza di costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, ne subordina la deducibilità alla condizione che il contribuente ne dimostri non solo “l’effettiva sussistenza”, ma anche il preciso “ammontare” (a conferma del fatto che l’interposizione scredita l’ordinaria efficacia probatoria della fattura) ed, altresì, l’inerenza”. Tenuto conto delle considerazioni di “buona fede” ipotizzate per il recupero dei costi e la mancanza, peraltro obiettiva in ragione della differente possibilità di indagini tra il processo penale e quello tributario, le contestazioni dell’Ufficio si rivelano non fondate. La circostanza è confermata e suffragata dalla documentazione regolarmente acquisita agli atti processuali. Le spese sono attribuite come da dispositivo e,

P.Q.M.

Conferma la decisione impugnata.
Condanna l’Agenzia al pagamento delle spese processuali del grado che liquida in € 2.000,00 (duemila/00) oltre accessori se dovuti.

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Fatture per operazioni soggettivamente inesistenti: condizioni per la detrazione dell’IVA versata

Nota a Sentenza Commissione Tributaria Regionale Napoli, Sez. Staccata di Salerno, Sez. V, 13 giugno 2016, n. 5487

Pres. Cosma – Rel. De Camillis

Nota a Sentenza a cura di Giulia D’Andrea.

Le condizioni che devono sussistere per la deduzione dei costi e dell’iva in ipotesi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

Con la sentenza in rassegna i Giudici di seconde cure di Napoli, Sezione staccata di Salerno, aggiungono un altro tassello alla vexata quaestio riguardante il trattamento fiscale di costi rappresentati da fatture soggettivamente inesistenti su cui si fondano numerosi casi di contenzioso tributario.
Il “casus belli” per il quale sono stati aditi i Giudici della Commissione Tributaria Regionale di Napoli sez. staccata di Salerno, di cui alla sentenza in commento, nasce da una verifica della Guardia di Finanza di Casalnuovo a ditta individuale individuata dalla GDF come “società cartiera”, in quanto”… la predetta ditta non aveva mai presentato dichiarazione dei redditi, mai istituito o tenuto alcuna contabilità, aveva omesso il versamento dell’iva ed aveva la sede legale, amministrativa ed operativa presso l’abitazione dell’amministratore, era inoltre risultata sconosciuta a quanti avessero intrattenuto con essa rapporti commerciali …” da tale segnalazione della GDF di Casalnuovo, la Guardia di Finanza di Salerno controllava la società committente/cessionaria avendo, quest’ultima, intrattenuto rapporti commerciali con l’asserita cartiera; sulla scorta di tale attività di controllo scaturiva un PVC a carico della società committente/cessionaria nel quale si giudica la condotta da essa posta in essere come “facente parte di un sistema articolato di frode”, si procede, pertanto, al recupero ai fini IRES e IVA di costi per un totale di euro 1.593.103, con il recupero di IVA per euro 318.620,83, in quanto rappresentati da fatture ritenute dall’organo verificatore quali soggettivamente inesistenti. La predetta società committente/cessionaria presenta ricorso presso la Commissione Tributaria Provinciale di Salerno che lo accoglie con la Sentenza n.400/2012, l’Agenzia delle Entrate presenta appello e separando in appello il thema decidendum relativo alle due imposte (IVA e IRES), delimita il contenzioso alla sola imposta IVA riconoscendo dunque la legittimità della deduzione ai fini IRES di costi rappresentati da fatture soggettivamente inesistenti, il collegio giudicante di cui alla sentenza de qua si pronuncia infine positivamente sulla possibilità di detrazione dell’iva rappresentata da fatture qualificate dall’ Ufficio come soggettivamente inesistenti respingendo il ricorso in appello presentato dall’Agenzia Delle Entrate. Per meglio comprendere il percorso logico giudico che ha portato i giudici del gravame a respingere il ricorso dell’appellante Agenzia delle Entrate, occorre esaminare e comparare il diritto nazionale in campo IVA e la giurisprudenza di legittimità nazionale ed europea sul punto; la materia oggetto della controversia de qua infatti è stata sottoposta più volte al vaglio dei Giudici della Corte di giustizia Europea i quali hanno dettato le linee guida a cui i Giudici nazionali devono ispirarsi per dirimere le controversie; ciò per la particolare natura di matrice comunitaria del tributo oggetto del contenzioso, non senza considerare però la necessità da parte dei giudici nazionali di non limitarsi ad applicare tout court i principi affermati dal giudice europeo ma di adattarli con adeguato senso critico alla particolare fattispecie sottoposta al loro vaglio, tant’è che anche nell’affrontare l’annoso problema della ripartizione dell’onere della prova i Giudici comunitari rimettono ai Giudici nazionali la decisione circa la “regola” da applicare di volta in volta. Preliminarmente si ravvisa l’esigenza di qualificare giuridicamente i due casi in cui si può incorrere quando si è in presenza di una fattura “falsa”, più precisamente vale la pena di ricordare che la fattura legittima il soggetto cessionario alla detrazione dell’imposta laddove il documento sia completo in tutte le sue parti così come prescritto dalla legge, ma ciò non è sufficiente, infatti in applicazione della Direttiva 2003/112/Ce la Corte Europea stabilisce la necessità di considerare prevalente il profilo “sostanziale” su quello “formale” sia sotto l’aspetto oggettivo che soggettivo, apertis verbis l’indicazione in fattura dell’imposta e di tutti gli adempimenti formali è condizione necessaria ma non sufficiente per il legittimo esercizio della detrazione (Corte di Giustizia,13 dicembre 1989, C-342/87), il funzionamento perfetto del meccanismo dell’IVA può essere inficiato da patologie che potrebbero comportare l’inibizione della detrazione dell’imposta al cessionario, dunque a seconda del caso che di volta in volta si presenta distinguiamo due fattispecie: -l’operazione non si è mai realizzata (inesistenza oggettiva); -l’operazione si è compiuta ma il soggetto cedente o prestatore è diverso da quello indicato sul documento de qua, di contro il cessionario o il committente ne è stato realmente il destinatario (inesistenza soggettiv . Ciò premesso, la sentenza in commento riguarda il secondo tipo di fattispecie, ovvero il caso su cui si fonda verte su un’ operazione commerciale realmente avvenuta, ma che ha asseritamente interessato soggetto diverso dall’emittente della fattura; qualificare un’operazione come “soggettivamente inesistente” comporta conseguenze diverse ai fini Ires e ai fini IVA; per completezza di trattazione, anche se la questione esula dal thema decidendum della sentenza de qua, occorre sottolineare come in materia si ravvisi una linea di demarcazione precisa tra le due imposte, si osservi infatti, quando si parla di imponibilità IRES di costi rappresentati da fatture “soggettivamente inesistenti”, come la normativa si sia nel tempo evoluta fino a considerare come deducibili ai fini IRES i costi rappresentati da fatture “soggettivamente false”, infatti a norma dell’art.14, comma 4 bis, della legge 24 dicembre 1993, n.537, nella formulazione introdotta con l’art.8, D.L. 2 marzo 2012, n.16, conv. modif. con L.26 aprile 2012, n.44, e come da ultimo chiarito nella Circ. Agenzia delle Entrate n. 32/2012, è stato introdotto il principio di diritto in virtu’ del quale sono deducibili i costi esposti in fatture o altri documenti aventi 51 analogo rilievo probatorio, relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti (non utilizzati direttamente per commettere reati) sempre che si tratti di costi che, a norma dell’art.109 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi 22/12/1986, n. 917, non siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (cfr.Cass., n. 10167 del 2012, seguita da Cass. n.3258 del 2013); la ratio legis è da ricercare nella circostanza che i beni o i servizi su cui si fonda il documento sono realmente entrati a far parte della sfera patrimoniale del cessionario anche se provenienti da soggetto diverso da quello che ha formalmente emesso il documento e lo sono anche qualora il soggetto ricevente il documento falso abbia consapevolmente partecipato al disegno evasivo, è pertanto corretta l’imputazione di tali voci di costo nel conto economico della società e nulla osta alla loro deducibilità sul piano fiscale avendo il cessionario sostenuto il costo e pagato il prezzo anche se a soggetto differente da quello che ha effettivamente prestato il servizio o fornito il bene; resta inteso che tale impianto logico si fonda sull’assunto che sia stata provata l’assenza dei presupposti dell’illecito penale (Sez. 5, n. 23626 del 11/11/2011). Orbene per la medesima fattispecie criminosa è invece controversa la possibilità di detrazione dell’iva da parte del cessionario, a prescindere dal fatto che l’imposta sia stata o meno pagata al cedente, in quanto seppure la cessione o la prestazione sia realmente avvenuta il fisco contesta la possibilità della detrazione dell’IVA all’acquirente del servizio o dei beni; la discriminante in tale fattispecie risulta essere, come vedremo meglio più avanti, la “cosciente” partecipazione del cessionario all’evento criminoso; più precisamente viene a determinarsi, secondo un orientamento più rigido, un evento prorompente nell’ambito del sistema IVA che ne altera le caratteristiche giuridiche e formali, infatti “…la detrazione IVA è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che effettua la cessione o la prestazione”.“Non entrano nel conteggio del dare ed avere ai fini IVA le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazione fatturate, in quanto tali fatture riguardano operazione inesistenti per quanto concerne il rapporto relativo alle operazione fatturate” Cass. Sez. n.3n.10394 del 14/01/2010 Gerotto, Rv.246327; viene in concreto ad essere carente, analizzando il tenore letterale dell’art.19 d.p.r. 633/1972, l’aspetto soggettivo dell’operazione, cioè il tributo viene ad essere considerato come “isolato” dalla massa di operazioni poste in essere perché non facente parte del meccanismo di compensazione naturale dell’imposta in quanto “viziata” per la mancanza di elemento fondamentale e necessario (Cass.6229/2013); in aggiunta la Cassazione con la Sent. n. 15374 del 2002 ha statuito che in tema di IVA, la fatturazione effettuata in favore di soggetto diverso da quello effettivo non è riconducibile ad una ipotesi di fatturazione con “indicazioni incomplete o inesatte” di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art.41, comma 3, né a quella di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui la operazione è effettuata, prescritta dall’art.21, comma 2, n.1 stesso decreto, di conseguenza deve essere necessariamente riconducibile ad un’operazione inesistente. Invero il sistema dell’IVA si poggia sul presupposto che tale imposta sia versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili, mentre il versamento dell’iva ad un soggetto non operativo apre la strada al recupero dell’indebito dell’iva stessa. Tale principio è stato affermato anche dalla Corte CE, nella decisione n.78 del 2003. Non si può per contro dimenticare che ai sensi dell’art.226 Direttiva 2006/112/CE e dell’art. 21 D.P.R. 633/72 la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo, purché sia redatta rispettando gli standard di forma e contenuto prescritti (Cass. 18710/2005), il soggetto passivo ha il diritto di portare in detrazione l’iva versata e in linea di principio tale diritto non può essere soggetto a limitazioni, pertanto per inibire la possibilità di esercitare tale diritto l’amministrazione finanziaria deve dimostrare che l’operazione commerciale o non è stata mai posta in essere oppure è stata realizzata da soggetti diversi da quelli formalmente indicati e lo può fare, secondo consolidata giurisprudenza, anche con presunzioni semplici (Sent. Cass. 29396/2008; 17572/2009; 9476/2010; 15741/2012; n. 2935/2015 e da ultimo Sent. 25545 e 25538 depositate il 27/10/2017), solo in tal caso si inverte l’onere delle prova a carico del contribuente che quindi deve dimostrare il contrario; in linea generale tale assunto trova il suo parametro normativo nell’art. 2697 cc, e nel più generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi, laddove la produzione di un atto amministrativo da parte dell’Amministrazione Finanziaria non adeguatamente supportato da prove oggettive andrebbe ad intaccare i principi costituzionalmente garantiti dall’art.97 Cost. di buon andamento ed imparzialità, e il diritto ad una buona amministrazione garantito dall’art.41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Invero, sulla dibattuta questione della ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente non vi sono nella Giurisprudenza italiana posizioni univoche, ma nel corso degli anni si sono succedute sentenze spesso contrastanti tra di loro; fino alla fine del 2011 la Cassazione aveva stabilito nella maggioranza dei casi che fosse a carico dell’Amministrazioni l’onere della prova (Cass. 4 febbraio 2011, n.2692, 26 settembre 2008, n.24201, 6 ottobre 2009, n.21317, 29 luglio 2009, n.1023, 19/10/2007, n.29153, 23 settembre 2005, n.18710), successivamente si rinvengono numerose pronunce che avallano il recupero a tassazione da parte dell’Amministrazione finanziaria di costi rappresentati da fatture soggettivamente false anche in presenza di soli elementi indiziari, in tali ipotesi l’Ufficio considera il coinvolgimento dell’acquirente alla frode anche per il solo fatto di aver intrattenuto rapporti con l’evasore (A. Iorio “Le più frequenti contestazioni del fisco”). In tale contesto è stato introdotto proprio dalla Corte di Giustizia Europea il cosiddetto principio della “buona fede” ai fini della detraibilità dell’IVA relati52 53 va ad operazioni soggettivamente inesistenti, principio che oramai ha “cittadinanza” anche nel nostro ordinamento, il concetto è sapientemente racchiuso nella locuzione di matrice comunitaria “sapeva o avrebbe dovuto sapere del comportamento illecito “, Il fisco 39/2015. Secondo gli eurogiudici la buona fede del contribuente è sempre presunta, pertanto essa può essere messa in discussione dall’Amministrazione finanziaria solo quando riesca a dimostrare la presenza di elementi probatori, anche in via presuntiva, che dimostrino contemporaneamente: -la divergenza soggettiva tra chi ha emesso la fattura e l’effettivo cessionario che ha realmente posto in essere l’operazione o la cessione; -la consapevolezza del cessionario di aver partecipato al meccanismo fraudolento o comunque la sua scarsa diligenza nel valutare le caratteristiche soggettive del soggetto con cui ha intrattenuto relazioni commerciali. L’approccio comunitario è maggiormente garantista rispetto a taluni giudici nazionali: infatti laddove i primi “fanno dipendere il venir meno del diritto alla detrazione dell’imposta versata come conseguenza di un dovere di diligenza fiscale, i giudici nazionali collegano la perdita del diritto alla detrazione quale conseguenza del divieto di scomputare il tributo corrisposto a soggetti diversi dal cedente”, in sede comunitaria si parte dalla regola secondo cui l’imposta è detraibile in nome del principio di neutralità, in ambito domestico, invece, si ragiona sull’assunto della generale indetraibilità dell’IVA versata a fronte di operazioni soggettivamente simulate. Da tale visione comunitari consegue che l’Amministrazione finanziaria che intende far valere un suo diritto in giudizio “deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” (art. 2697 cc), stante la regola secondo cui l’iva non può incidere un soggetto che in assoluta buona fede abbia pagato l’imposta e ricevuto la prestazione o il bene fatturato senza aver partecipato all’evento fraudolent,,ciò nel rispetto del principio generale di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, escludendo un sistema di “responsabilità’ oggettiva” che lederebbe oltremisura gli interessi del singolo e andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario (cfr. Corte Giust. UE, 21 Giugno 2012 C-80/11) secondo l’approccio comunitario il diritto alla detrazione IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti viene negato solo quando il cessionario, usando la propria diligenza, avrebbe potuto ragionevolmente avvedersene (Corte di Giust. UE, 6 settembre 2012, C-324/11), è chiaro quindi un sistema garantista del diritto alla detrazione rispetto al più generale dovere di contrastare in maniera oggettiva le frodi. Il principio del “sapere” viene introdotto in maniera chiara con la pronuncia OPTIGEN CGCE, sentenza 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03, C-484/03, in tale sentenza la Corte di Giustizia europea tutela la posizione fiscale del soggetto che inconsapevolmente è coinvolto in un comportamento illecito ma che “non sapeva o non poteva sapere” della fittizietà soggettiva dell’operazione, per gli eurogiudici il diritto alla detrazione dell’imposta versata deve essere assolutamente tutelato e si sacrifica solo in presenza di elementi oggettivi, infatti analizzando le pronunce del giudice europeo non si può non sottolineare come il giudizio di consapevolezza del cessionario non si esaurisca in una valutazione meramente soggettivo-psicologica; in particolare nella sentenza C-439/04 Alex Kittel si afferma che detta responsabilità debba essere desunta da “elementi oggettivi”, realizzando così una sorta di “oggettivazione” della responsabilità; è bene sottolineare come, inoltre, vi sia un diverso approccio da parte dei Giudici Comunitari sul piano dell’onere probatorio asseconda che si parli di “frodi carosello” o di frodi “semplici”, infatti quando si è in presenza di “frodi carosello” secondo la Corte di Giustizia Europea, l’Amministrazione finanziaria, alla luce di elementi oggettivi, dovrebbe dimostrare la partecipazione alla frode da parte del cessionario, il quale potrebbe non sapere che l’operazione a valle o a monte di quella in cui è stato coinvolto presenta aspetti fraudolenti, alla stessa stregua ci si atteggia nei confronti delle cosiddette “frodi semplici”; diversamente, secondo i Giudici Nazionali, non vi è l’onere della prova a carico dell’Amministrazione finanziaria per i documenti soggettivamente inesistente laddove via sia una semplice simulazione che coinvolge tre soggetti (fornitori, interposto e cliente), l’inconsapevolezza del cliente è considerato “caso di scuola” e l’azione amministrativa di accertamento potrà fondarsi quasi esclusivamente sull’inesistenza della transazione (Documento del 15 giugno 2015 FNC e Scuola di Polizia Tributaria), più precisamente nel caso di frodi semplici, una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri che la prestazione non è stata resa dal fatturante perché inidoneo ad effettuarla in quanto mancante di requisiti organizzativi, nonché di dotazioni strumentali e personali, attesa la prossimità dei rapporti commerciali che non contempla la possibilità di intermediari tra cedente e cessionario, la fattispecie si configura quale frode sic et simpliciter in quanto non può, secondo tale interpretazione, il cessionario non essere consapevole dell’intento fraudolento, con la conseguenza che viene inibita la possibilità di portare in detrazione l’imposta versata, senza la necessità di ulteriore onere probatorio da parte dell’Amministrazione finanziaria, in conclusione la giurisprudenza nazionale ritiene l’indirizzo Europeo perseguibile per le sole “frodi carosello”; in aggiunta secondo un’interpretazione più restrittiva la Corte di Cassazione con la sentenza n.19530/2011 ritiene che per le “frodi carosello” il meccanismo criminale è tale da far “presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale”. In definitiva la Corte di Giustizia Europea dal punto di vista dell’onere probatorio non distingue, a differenza della giurisprudenza nazionale, tra “frodi carosello” e “frodi semplici” e, con un approccio garantista, stabilisce che deve essere compito dell’Amministrazione finanziaria, sia nell’uno che nell’altro ca- so, dimostrare che il soggetto passivo “era o avrebbe dovuto essere a conoscenza” dell’esistenza di un’evasione, dove le prove devono essere obiettive e non riconducibili allo stato soggettivo del soggetto che fattura l’operazione. ”.(vedi Il Sole 24 ore “Giudici divisi sulle frodi carosello”del 13 maggio 2013).

Conclusioni

La sentenza in commento sembra propendere per la tesi maggiormente garantista avallata dai giudici comunitari: infatti, nonostante nel caso di specie la ditta cedente abbia tutte le caratteristiche di “società cartiera”, dinanzi alla prova fornita dal contribuente di aver ricevuto e pagato la merce indicata nei documenti oggetto del rilievo, viene salvaguardato il diritto alla detrazione stabilito da D.P.R. 633/1972 e dalla Sesta Direttiva CEE, seppure nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di cui alla sentenza de qua la prova fornita dal contribuente si basi solo su elementi formali che nelle dinamiche distorte di frodi fiscali potrebbero comunque essere organizzati e preordinati in modo da far “apparire” l’operazione criminale realizzata aderente ai canoni di una normale operazione commerciale, di segno contrario alla Sentenza in rassegna sembrano essere le Sentenze 8132/11 e 6229/13 dove si afferma che l’ignoranza inconsapevole è stata esclusa in assenza in capo all’emittente della fattura di dotazione personale e strumentale, ovvero la prova che la prestazione non è stata eseguita dal fatturante costituisce, secondo una più recente giurisprudenza, elemento sintomatico di assenza di “buona fede”; nella Sentenza in commento, dunque, i giudici di seconde cure ancorano la propria decisione al “principio del sapere” e della “buona fede” maggiormente garantista di stampo comunitario (Il Fisco n. 35/2015). Il collegio giudicante della sentenza de qua, in definitiva, è particolarmente sensibile alla protezione del diritto del cessionario alla detrazione dell’IVA così come previsto dall’art.17 della sesta direttiva,diritto che viene negato solo allorquando l’operatore “sapeva o avrebbe dovuto sapere che con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA (punto 56 Sentenza C-439/04 Alex Kittel) considerando quale elemento discriminante la “buona fede” che non permette al cessionario di accorgersi dell’avvenuta frode, ciò in quanto non vi è la presenza di alcun segnale di palese anomalia nel sistema commerciale di cui egli ha fatto parte (anomalie nei prezzi, nelle consegne, nelle modalità’ di pagamento); si propende, in definitiva, per una visione comunitaria del concetto di “buona fede”, discostandosi leggermente dal concetto della “consapevolezza” nazionale affermato nella sentenza n.6229/2013 della Corte di Cassazione che rappresenta necessariamente l’analisi delle cautele e delle ragionevoli precauzioni poste in essere, nel concreto, dal soggetto (vedi Il Fisco 19/2014). Dall’analisi della sentenza oggetto del presente lavoro restano dubbi riguardanti la pericolosità di un uso distorto della locuzione “sapeva o avrebbe potuto sapere”, infatti se è incontrovertibile che nella Sentenza in commento i Giudici di seconde cure interpretano la fattispecie nel senso più favorevole al contribuente, non si può sottacere il fatto che lo stesso principio viene spesso utilizzato dai giudici del gravame in senso contrario, in tal caso l’interrogativo da porsi è relativo alla correttezza di una tale impostazione, laddove si arriva a negare un diritto attribuito dalla legge legandolo a un concetto così vago come quello della “consapevolezza” o addirittura della “possibile consapevolezza” ( “avrebbe potuto sapere”), non vi è nessuna norma del nostro ordinamento che nega la possibilità di portare in detrazione l’imposta versata sulla base di una mera conoscenza del comportamento fraudolento del cedente, a complicare ulteriormente il quadro è la querelle relativa all’ oggetto di tale conoscenza e cioè la conoscenza della diversità soggettiva dell’effettivo cedente rispetto a quello indicato sul documento, oppure la conoscenza del mancato versamento dell’IVA da parte del soggetto cedente? Correttamente la pronuncia della Cassazione n.17377/2009 individua l’oggetto della consapevolezza richiesta al cessionario nella diversità tra il cedente effettivo e quello reale, mentre naturalmente la consapevolezza non può riguardare la circostanza che l’IVA a monte non sia versata; in definitiva dalla portata degli interrogativi non risolti in maniera univoca da norme ben precise sembra vacillare il principio di legalità e di certezza del diritto, ponendo il contribuente in una posizione scivolosa e legata in maniera pericolosa all’interpretazione e alla sensibilità del Collegio giudicante. Diversa è invece l’impostazione comunitaria infatti in tale ambito la locuzione “sapeva o avrebbe potuto sapere” viene utilizzata pro-contribuente, ovvero l’elemento soggettivo viene utilizzato dopo aver ravvisato la presenza di un elemento oggettivo già pregiudicante (di nullità assoluta del negozio sottostante) e viene utilizzato per consentire la possibilità di detrazione al cessionario soggetto che ha partecipato ad un’operazione già identificata come viziata da elementi fraudolenti, l’elemento soggettivo per i Giudici comunitari (diversamente dai Giudici nazionali) da solo non è sufficiente a negare la possibilità di detrazione, ma deve essere necessariamente supportata da un precedente elemento oggettivo riscontrato.

Giulia D’Andrea

Sentenza Commissione Tributaria Regionale Napoli, Sez. Staccata di Salerno, Sez. V, 13 giugno 2016, n. 5487

Pres. Cosma – Rel. De Camillis

IVA – Fattura soggettivamente inesistente – Detrazione dell’IVA versata dal cessionario – Condizioni

Le fatture soggettivamente inesistenti sono fatture emesse (per un’operazione reale) da un soggetto diverso da quello che ha effettivamente posto in essere la prestazione o la cessione. In tal caso il cessionario o committente non può detrarre l’IVA pagata perché, avendo versato l’imposta a un soggetto diverso dall’effettiva controparte della transazione, apre la strada a un indebito recupero tributario e, di conseguenza, crea un evento dirompente per il complessivo sistema dell’IVA. Ciò si deduce dall’art. 21, comma 7°, D.P.R. n. 633/1972, che non prevede la detrazione ma solo l’obbligo del versamento all’erario dell’IVA indicata nella fattura inesistente: l’IVA della fattura inesistente è “fuori conto” e la relativa obbligazione dev’essere di conseguenza “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò sesso, dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” e IVA “a monte”, che presiede il meccanismo di detrazione. Tale impostazione, tuttavia, risulta stemperata dai principi di tutela dell’affidamento e di certezza del diritto, in base ai quali la detrazione dell’IVA non può essere negata al cessionario o al committente in buona fede, che, cioè, dimostri di non aver avuto (e non aver potuto avere) la consapevolezza di partecipare, col proprio acquisto, a un illecito fiscale. Nel processo tributario non penale, ciò si traduce nel diritto a detrarre l’IVA a condizione che il committente o il cessionario provi che la controparte appariva legittimata a ricevere il pagamento dell’imposta in base a circostanze univoche e che l’operazione è effettivamente sussistente, inerente e nel preciso ammontare indicato.

Svolgimento del processo

Il sig. P.A., nella qualità di legale rappresentante della ditta “T.P. SpA” con sede in Battipaglia (SA), rappresentato e difeso dal dott. C.C., con ricorso notificato all’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Salerno, impugnava Avviso di Accertamento, anno 2007, notificato in data 9.6.2011. Il provvedimento impugnato era stato emesso a seguito di pvc, redatto in data 4.3.2011, all’esito di una verifica fiscale effettuata dalla GGFF. Salerno a carico della Società ricorrente. L’attivazione della verifica seguiva la segnalazione pervenuta dalla Guardia di Finanza di Casalnuovo, la quale, con nota del 17.2.2011, comunicava al Nucleo di Salerno che, nel corso di una verifica fiscale a carico della ditta individuale “C. di B.G.”, ritenuta dai verificatori, all’esito degli esperiti controlli, soggetto “cartiera”, erano state individuate n. 42 fatture, emesse dal predetto B. nei confronti della T.P. per l’importo complessivo di € 1.593.103,38 in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti. La Guardia di Finanza di Casalnuovo aveva appurato che la predetta ditta non aveva mai presentato alcuna dichiarazione dei redditi, non aveva mai istituito o tenuto alcuna contabilità, aveva omesso il versamento dell’IVA, aveva sede legale, amministrativa ed operativa presso l’abitazione del suo titolare, B.G., era risultata totalmente sconosciuta ai soggetti economici con i quali risultava aver intrattenuto rapporti commerciali e non aveva mezzi o dipendenti per l’esercizio dell’attività. Sulla scorta di quanto segnalato dal Nucleo di Casalnuovo, la Guardia di Finanza di Salerno, in data 28.2.2011, iniziava attività ispettiva nei confronti della T.P. SpA per controllare i rapporti intercorsi con la ditta “C. di B.G.”. Esaminava tutta la documentazione amministrativo-contabile attinente i rapporti economici intercorsi tra le ditte. All’esito del controllo, riscontravano che la Società ricorrente aveva, ai fini delle imposte dirette, detratto il costo documentato dalle fatture di cui innanzi, e, ai fini IVA, aveva provveduto alla detrazione 48 della relativa imposta, ragion per cui provvedevano alla constatazione dell’indeducibilità dei predetti costi e della indetraibilità dell’IVA, ritenendo indubbio che, nel caso in esame, i costi sostenuti dalla T.P. fossero riconducibili a fatture soggettivamente inesistenti. Sempre ai fini delle imposte dirette, ritenendo la condotta posta in essere da parte della T.P. rientrante in un sistema articolato di frode cui risultava preordinata l’emissione delle fatture ad opera del soggetto “cartiera”, veniva ritenuto indeducibile il relativo costo ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 14, comma 4 bis, della legge 537/1993, in base al quale nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6 del TUIR, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Con l’Avviso impugnato, si è proceduto al recupero a tassazione ai fini IRES e IRAP di costi a fronte di operazioni inesistenti per € 1.593.103,00 mentre ai fini IVA, in ragione della indetraibilità di tale imposta laddove assolta su fatture per operazioni inesistenti, si è recuperato l’importo di € 318.620,83 applicando 1’aliquota del 20% sull’imponibile recuperato. Il ricorrente ha impugnato il provvedimento, insistendo sulla effettività delle operazioni contestate, in quanto la merce è stata realmente acquistata e immessa nel ciclo produttivo aziendale, e sulla illegittimità della pretesa per non aver, l’Ufficio, provato la relativa colpevolezza. Tutta la merce, secondo il ricorrente, è stata consegnata con documenti di accompagnamento, presa in carico in magazzino ed impiegata nella produzione, e tutte le forniture, che si presumono oggetto di frode, sono state regolarmente saldate attraverso mezzi di pagamento trasparenti (bonifici ed assegni bancari). Le considerazioni cui sono pervenute i verbalizzanti non sono suffragate da alcuna idonea analisi dell’azienda e dei cicli produttivi, ma si sono basate su preconcetti legati alla ditta ritenuta “evasore totale”, senza tener conto del principio di buona fede e senza una disamina serena delle reali situazioni della T.P., società che è nel settore da oltre trenta anni, estranea ad ogni ipotesi di meccanismi fraudolenti. Chiedeva l’annullamento dell’atto impugnato, ritenendo non dovute le pretese fiscali, la pubblica udienza. L’Ufficio, costituitosi in giudizi o con memoria prot. 291074 del 11.11.2011, osservava che, nella circostanza, non era dall’effettivo utilizzo dei prodotti che si rilevava la mancanza del coinvolgimento della Società nella ipotesi criminosa rilevata dagli accertatori. Ciò che rilevava era la inesistenza giuridica di uno dei soggetti coinvolti nei rapporti commerciali che avevano portato alla emissione dei documenti fiscali in contestazione, prescindendo totalmente dalla valutazione circa l’effettività delle operazioni. Anzi, secondo l’Ufficio, siffatte frodi vedono sempre la partecipazione, quale destinatario delle fatture soggettivamente inesistenti, un soggetto economicamente reale che è il beneficiario della frode e che è l’acquirente dei beni della cartiera, provenendo i prodotti da quest’ultima solo cartolarmente, mentre di fatto si riferiscono ad altra ditta, molto spesso con sede in altro Stato dell’Unione Europea. La ditta C. è risultata totalmente priva di qualsivoglia capacità imprenditoriale e il suo titolare non ha saputo fornire alcun elemento circa i rapporti commerciali in questione. Non ha fornito alcuna documentazione amministrativo-contabile della ditta che è risultata avere la sede presso la sua abitazione. Quanto al principio di colpevolezza, l’Ufficio richiama i principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità, in base ai quali il contribuente ha l’onere di dimostrare che è incolpevole e provare la sua assoluta ignoranza alla partecipazione di una frode fiscale. Ai sensi della legge n. 537/1993, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato e, nella specie, i costi recuperati a tassazione sono fittizi in quanto coperti da fatture false e quindi diretta espressione di un comportamento costituente reato. Concludeva per il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio come da notula. La Società in data 8/03/2012 depositava memorie illustrative. Costituitosi il contraddittorio nei termini essenziali sopra succintamente esposti, la Commissione Tributaria Provinciale Salerno sez. 1, udienza 22/03/2012, con sentenza n 400, accoglieva il ricorso. Compensava le spese. L’Agenzia Entrate Salerno in data 19/04/2013 presentava appello; riteneva ingiusta la sentenza e chiedeva l’accoglimento dell’appello, la pubblica udienza con condanna alle spese come da notula. La ricorrente in data 14/05/2013 presentava controdeduzioni, confermava la legittimità del proprio operato e chiedeva la conferma della sentenza. All’odierna udienza, della quale le parti avevano ricevuto rituale avviso, presente per la ricorrente dott. G.P., per l’ufficio il dott. F. F., dopo l’esposizione dei fatti ad opera del Giudice relatore, la causa veniva riservata a decisione. 49 Motivi della decisione La Commissione, esaminati gli atti e valutate le argomentazioni, ritiene che l’appello è infondato e non meritevole di accoglimento per le seguenti motivazioni. Il Collegio ritiene che occorre delimitare, preliminarmente, il tema di indagine di questo grado. Il rappresentante dell’ufficio ha dichiarato a verbale che era cessata la materia del contendere limitatamente alle II.DD, poiché l’ufficio non intendeva più insistere sul punto e che il giudizio doveva continuare limitatamente all’Imposta IVA e accessori. Ne consegue che l’appello deve intendersi rinunciato per la parte relativa alle IIDD e la sentenza di prime cure deve intendersi passata in giudicato su tale questione. Il giudizio deve essere limitato alla debenza o meno dell’imposta IVA. Il Collegio osserva che le fatture soggettivamente inesistenti riguardano i casi in cui il documento viene emesso per una prestazione o una cessione realmente avvenuta, ma si presume che l’emittente (prestatore o cedente) non è quello che effettivamente ha fatto l’operazione. Non si è, quindi, in presenza della fittizietà dell’operazione (oggettivamente inesistente) ma di un documento che sarebbe stato emesso da chi non ne ha titolo. La recente decisione della Suprema Corte (Sez. 5, n. 23626 del 11.11.2011), anche in relazione a precedenti determinazioni di diverso contenuto, ha avuto modo di chiarire che ai fini della determinazione del reddito di impresa, i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti dal committente/cessionario (così come va negato il diritto alla detrazione dell’imposta IVA effettivamente versata) ove non ricorra la prova dell’assenza dei presupposti dell’illecito penale, integrando invero tale operazione, tradizionalmente, il reato di falso documentale, rilevante sia come concorso nell’emissione di fattura falsa, sia come utilizzazione a fini di evasione; infatti, la derivazione dei costi da un’attività integrante illecito penale – espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa- comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi medesimi. Per operazione soggettivamente inesistente, il diritto alla detrazione dell’imposta effettivamente versata e quello alla deduzione dei costi sostenuti da parte del committente/cessionario deve ritenersi inevitabilmente subordinato all’assenza dei presupposti dell’illecito penale. Altrimenti, verrebbe a mancare l’indefettibile requisito (sia della detrazione d’imposta sia della deduzione dei costi) rappresentato dalla relativa inerenza all’impresa, intesa come rapporto tra un costo e lo svolgimento della specifica attività che costituisce ragion d’essere stessa dell’impresa, che è onere del contribuente comprovare (cfr. Cass. 13205/03,11109/03). Infatti – lo stesso legislatore, nel precludere l’ammissione in deduzione di costi e spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato ( L. n. 537/1993, art. 14, c. 4 bis, introdotto dalla L. n. 289/2002, art. 2, c. 8) – la derivazione dei costi da attività integrante illecito penale, in quanto espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività istituzionale dell’impresa, non può che comportare la rottura, già in termini oggettivi, del nesso di “inerenza” tra i costi medesimi e quell’attività (cfr. Cass. 4750/10, 1950/07). Con specifico riguardo alla deducibilità dei costi, ciò comporta, sul piano della distribuzione dell’onere della prova, che, se l’Agenzia dimostri che l’operazione cui la fattura si riferisce è soggettivamente inesistente, compete al contribuente provare l’insussistenza di ipotesi penalmente rilevanti, in base alla regola, secondo cui, la ricorrenza dei presupposti di una deduzione, riducendo questa l’imponibile, va provata dal contribuente. E secondo l’attuale tendenza giurisprudenziale, il principio di non coinvolgimento nel processo fraudolento deve essere provato a carico del ricorrente, cui dovrebbe essere riconosciuta la non conoscenza di circostanze illecite o, quanto meno, la buona fede, tenendo presente che, in presenza di elementi probatori forniti dall’Ufficio a sostegno della propria tesi, è onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni, tenendo presente che, in caso di contestazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non rileva la presenza di documenti contabili formalmente regolari o l’effettività delle transazioni. In applicazione di tali principi, al committente/cessionario può essere riconosciuto il diritto a detrarre l’IVA “solo a condizione che provi che la controparte venditrice appariva legittimata a ricevere il pagamento dell’IVA in base a circostanze univoche”. Nella circostanza, la posizione giustificativa della Società pone l’accento sul risultato della produzione, non altrimenti raggiungibile se non con l’utilizzo delle materie prime comunque acquisite. Il calcolo effettuato per dimostrare il reale utilizzo delle materie prime per il realizzo dei beni finiti, dimostrerebbe la buona fede della Società che avrebbe ricevuto la merce, riportata in contabilità, senza rendersi conto di una fraudolenta situazione di evasione che si riporta ad un reato di danno a carico di altre aziende. Ne deriva, come affermato dalla stessa Corte (Cass. n. 9537 del 29-4-2011 – Cass. Pen. N. 41444 del 14.11.2011) che l’utilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti si ricollega al costo effettivamente sostenuto dalla Società, con possibilità, quindi, della sua considerazione ai fini della dichiarazione. Si tratta, cioè, di costi effettivamente sostenuti anche se relativi a documenti emessi da altri soggetti rispetto a quelli indicati, in una situazione in cui il concetto di illecito penale viene, ai fini tributari, valutato in ragione dell’effettività delle prestazioni e della ipotesi di non evasione fiscale. Con riguardo al tema della detraibilità dell’IVA, esclusa (cfr. Cass. 4750/10, 17377/07, 5718/07, 6378/06) la riconducibilità della fattispecie a quella dell’emissione di fattura recante indicazioni incomplete o inesatte (previste dal D.P.R. n. 633/1972, art. 41, c. 3) e a quella di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui è effettuata l’operazione (prevista dal precedente art 21, c. 2 n. 1), si rileva che, in ipotesi di emissione della fattura da parte di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione, viene a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione dell’IVA, costituita dall’effettuazione di un’operazione, giacché questa (riferendosi al D.P.R. n. 633/1972, art. 19, c. 1, all’imposta relativa alle “operazioni effettuate”) deve ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione (v. Cass. 23987/09, 5719/07). Si osserva, inoltre, che la previsione del D.P.R. n. 633/1972, art. 21, c. 7 – secondo la quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura – è, con riguardo all’ipotesi considerata, esplicita nel senso di imporre il versamento dell’imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione viene, infatti, letta nel senso che il tributo viene ad essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. n. 633/1972, art. 19. E ciò per il rilievo che il versamento dell’IVA ad un soggetto che non sia la genuina controparte – aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta (cfr. Cass. 4750/10, 5718/07, 14337/02) – è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema IVA, essendo questo finalizzato a che l’imposta sia versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili, perché la compensi con l’imposta, a sua volta, corrisposta per l’acquisto di beni e di servizi (v. Cass. 4750/10, 309/06, 12353/05). Tale impostazione risulta stemperata (con effetto anche sull’ordinamento interno) dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia C.E., che ha escluso che, in funzione dei principi della tutela dell’affidamento e della certezza del diritto, l’esercizio del diritto alla detrazione IVA possa essere negato al committente/cessionario in buona fede, che, cioè, dimostri di non aver avuto (e non aver potuto avere, avendo in proposito adottato tutte le ragionevoli precauzioni) la consapevolezza di partecipare, con il proprio acquisto, ad illecito fiscale (cfr. sent. 6.7.2006 nelle cause riunite C439/04 e C-440/04 e sent. 12.1.2006 nelle cause riunite C-354/03, C-355/03 e 484/03). Alla stregua delle considerazioni che precedono ed atteso che il criterio (che, peraltro, riconduce ad unità il trattamento della detrazione dell’IVA e quello della deduzione dei costì ai fini dell’imposizione diretta, di fronte al fenomeno della fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti) non è contraddetto, ma, anzi, confortato da Cass. 1147/10, che, in presenza di elementi atti ad asseverare la ricorrenza di costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, ne subordina la deducibilità alla condizione che il contribuente ne dimostri non solo “l’effettiva sussistenza”, ma anche il preciso “ammontare” (a conferma del fatto che l’interposizione scredita l’ordinaria efficacia probatoria della fattura) ed, altresì, l’inerenza”. Tenuto conto delle considerazioni di “buona fede” ipotizzate per il recupero dei costi e la mancanza, peraltro obiettiva in ragione della differente possibilità di indagini tra il processo penale e quello tributario, le contestazioni dell’Ufficio si rivelano non fondate. La circostanza è confermata e suffragata dalla documentazione regolarmente acquisita agli atti processuali. Le spese sono attribuite come da dispositivo e,

P.Q.M.

Conferma la decisione impugnata.
Condanna l’Agenzia al pagamento delle spese processuali del grado che liquida in € 2.000,00 (duemila/00) oltre accessori se dovuti.