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A CURA DI GIULIA D'ANDREA

“IL FUTURO DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA” Prospettive interdisciplinari nel confronto tra Accademia e Professioni, Università degli studi di Salerno

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A CURA DI
GIULIA D'ANDREA

“Divieto di nuove prove e documenti nel giudizio di appello: disamina della novella legislativa e riflessioni”
A cura di Giulia D’Andrea

Nell’ambito della recente riforma della giustizia tributaria non si può prescindere dall’esaminare, al fine di una più intima comprensione delle innovazioni legislative introdotte, ciò da cui tutto ha avuto inizio, ovvero la L. n.111 del 09 agosto 2023, con cui si sono dettate le linee guida e i principi ispiratori dell’attuale riforma e a cui il Legislatore, nel rispetto di quanto dettato dall’art.76 della Costituzione, si è attenuto (o almeno avrebbe dovuto attenersi) nel concepire e porre in essere le norme di attuazione della delega.
In particolare, il Legislatore delegante nell’art.19 della menzionata legge, alla lett.d, ha previsto che venga “rafforzato il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo”, è quindi in tale previsione legislativa che è da ricercare la genesi dell’attuale formulazione dell’art.58 del D.lgs. 546/92.
Accanto ad un generale divieto nel produrre nuove prove in appello nella previgente formulazione dell’art.58 comma 1 si faceva salva la possibilità da parte del Giudice Tributario di ammetterle nel caso in cui “le ritenesse necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio”, nel contempo era sempre possibile “produrre per le parti nuovi documenti”.
Dalla lettura di tale previsione normativa si evince icto oculi che in realtà più che rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti in appello, il legislatore è stato investito della facoltà di introdurre ex novo un generale divieto alla produzione di nuovi documenti (unitamente al divieto già esistente di produzione di nuovi mezzi di prova) prima non sussistente.
La norma previgente attuava un’evidente dicotomia tra “nuove prove “e “nuovi documenti”, laddove le prime non erano suscettibili di ammissione a meno che non si fosse ravvisata ad insindacabile parere del Giudicante una necessità delle stesse ai fini della decisione, e per i secondi invece si riscontrava una generale ammissione indiscriminata nel secondo grado di giudizio.
Il 04 gennaio 2024 è entrato in vigore l’art.58 del D.lgs. 546/92 così come modificato dal D.lgs. 220/2023 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 04 gennaio 2024:
di seguito la norma rubricata “Nuove prove in appello” così come modificata:
    1. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile
   2. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio nel primo grado, da cui emergono vizi degli atti o provvedimenti impugnati.
   3. Non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis.

L’intento del Legislatore delegante, in ossequio alla delega ricevuta e in ossequio, vale la pena di ricordarlo, al principio direttivo contenuto della l.30 dicembre 1991, n.413, da cui è scaturito il D.lgs. 546/92, secondo cui il processo tributario avrebbe dovuto adeguarsi a quello civile, era forse quello di avvicinarsi all’art.345 c.p.c.?
A dire il vero, se per un verso nel rito tributario, al pari di quello civile, si è introdotto un generale divieto a produrre in secondo grado nuove prove e nuovi documenti, seppur con i temperamenti che vedremo nel corso della trattazione, per un altro verso si assiste ad un’apertura da parte del Legislatore delegante tributario, che “consente” al collegio di valutare l’indispensabilità della nuova prova o dei nuovi documenti nel secondo grado di giudizio al fine di ammetterli nel processo, stessa previsione che era prevista nel rito civile ma che è stata espunta con la riforma operata dal d.l.22 giugno del 2012, n.83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n.134.
Ne consegue che, se volessimo continuare nell’ottica di comparazione dei due riti, si è assistito con l’attuale riforma ad un passo indietro rispetto all’attuale preclusione draconiana contenuta nell’art.345 cpc, quasi a voler affermare (pensiero assolutamente condivisibile) una rinnovata identità del processo tributario per troppo tempo considerato quasi come una giurisdizione di serie minore; l’attuale riforma a cui stiamo assistendo invece, a partire dalle modifiche già attuate nel 2022, è tesa a conferire non solo autonomia ma anche dignità ed autorevolezza ad un processo che svolge un’indubbia funzione sociale ed economica.
Il riferimento è, ad esempio, all’introduzione del comma 5 bis dell’art.7 del D.gs 546/92 con cui finalmente anche nel rito tributario si ha una norma in grado di disciplinare la distribuzione dell’onus probandi all’interno della dialettica processuale senza far ricorso al corrispondente (in tema di prova) art.2697 del codice civile.
Per ritornare all’oggetto della trattazione odierna, la ratio della norma è da ricercare nella peculiarità del processo tributario nel quale indubbiamente la prova documentale riveste una preminente importanza rispetto ad altri riti laddove si riscontra, purtroppo, l’assenza di una fase dedicata all’espletamento dei mezzi istruttori e nel quale si è sempre più alla ricerca della verità materiale rispetto alla verità processuale.
La domanda che ora dobbiamo porci è se tale esigenza è da considerare preminente rispetto alla necessità di avere precise e rigide preclusioni processuali atte a garantire non solo il sacrosanto diritto di difesa degli individui garantito dall’art.24 della Costituzione ma anche perseguire una ragionevole durata del processo unitamente ad un giusto ed equo processo, o se non può essere ravvisata una “terza via” che consenta di far emergere la verità dei fatti all’interno del processo tributario ma che non sia di pregiudizio alla parte che ha osservato diligenza e correttezza contrapposta a quella che invece ha sottovalutato l’importanza del primo grado!
Nell’analizzare la semantica utilizzata dal legislatore dobbiamo fare una comparazione tra la previgente formulazione dell’art.58 e l’attuale testo normativo, laddove, se è vero che ad oggi viene assolutamente negata la possibilità indiscriminata di produrre nuovi documenti in appello precedentemente consentita, è anche vero che se ne consente l’entrata nel processo al sopraggiungere di determinate condizioni che sono rimesse, stante l’attuale formulazione letterale della norma, alla discrezionalità dell’organo giudicante.
Per meglio dire:
se prima per consentire l’ingresso di nuove prove il Collegio doveva valutarne la necessarietà ai fini processuali, oggi leggiamo un altro aggettivo, ovvero la nuova prova o il nuovo documento, per entrare nel secondo grado di giudizio, devono possedere il connotato di indispensabilità.
In tale scenario risulta evidente come sia centrale approfondire il concetto di prova indispensabile comparandola con il concetto di prova necessaria precedentemente espresso dal Legislatore.
necessaria quella prova che risulta determinante per la definizione del giudizio, ovvero utile alla formulazione della sentenza e alla decisione della controversia, è invece indispensabile la prova senza la quale il processo non può essere oggetto di definizione, è tale la prova assolutamente necessaria, dirimente; c’è un sottile confine tra i due concetti, è come se dovessimo immaginare uno scalino intermedio tra l’una e l’altra concezione.
È naturalmente rimessa alla sensibilità giuridica del Giudice la valutazione dell’indispensabilità della prova rammentando che ne esistono due interpretazioni:
la prima meno rigida e la seconda più ristrettiva tanto da farla denominare di “indispensabilità ristretta”, l’ispirazione è fornita dalla Sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n.10790 del 2017, sentenza quanto mai attuale in quanto, seppur disciplinante ratione temporis un caso di applicazione dell’art.345 cpc nella formulazione antecedente la modifica apportata nel 2012, si appalesa oggi più che mai attuale ed utile a fornirci una valida interpretazione, sia ai fini della corretta interpretazione dell’art.437 comma cpc e art.702 quater stesso codice, nonché ai fini dell’attuale formulazione dell’art.58 del D.Lgs 546/92, in riferimento chiaramente al concetto di “prova indispensabile”.
Nella citata sentenza i Supremi Giudici, nello statuire circa l’interpretazione della locuzione “prova indispensabile”, si interrogano se debba intendersi tale la prova “dotata di un’influenza causale decisiva rispetto alle altre prove per la decisione della controversia, tale da dissipare lo stato di incertezza oppure solo quella che sia divenuta utile e necessaria per effetto delle valutazioni su risultanze istruttorie di primo grado esposte nella sentenza appellata”, ma prima ancora di evidenziare le due interpretazioni possibili puntualizzano cosa debba intendersi per “prova nuova”: è tale la prova avente ad oggetto un “fatto nuovo” allegato per la prima volta in appello, ma anche quella destinata ad evidenziare un fatto già allegato in primo grado, è evidente che è più semplice l’interpretazione della prima previsione in quanto ricadremmo nell’ipotesi di prova di cui la parte non avesse la disponibilità nel primo grado, più controversa invece la soluzione della seconda interpretazione.
Ciò premesso la Corte di Cassazione, nell’esprimersi circa questa seconda ipotesi, evidenzia due orientamenti.
Il primo: il concetto di indispensabilità è inteso come “influenza causale più incisivo della rilevanza, di talché è tale quella prova che contribuisce a dare un apporto decisivo all’accertamento della verità materiale, assolutamente necessaria, decisive a d accertare la verità, tale che da sola è in grado di dirimere la controversia, in modo da superare le preclusioni istruttorie di primo grado e colmi le lacune del materiale istruttorio ivi raccolto, il tutto senza dare rilievo alle eventuali preclusioni in cui la parte sia incorsa anche se per propria negligenza”.
La seconda tesi invece denominata di “indispensabilità ristretta”: “nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si sia formata. Ciò che la decisione asserisce a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che nel contraddittorio di primo grado non era neanche apprezzabile come utile e necessario”.

Per la verità sarebbe coerente, in quanto maggiormente aderente ai principi ispiratori di tutta la riforma attuale, discostandoci dalla pronuncia anzidetta, aderire all’interpretazione ristretta della indispensabilità della prova, salvaguardando sia il concetto di processo tributario quale dispositivo e allegatorio (e non inquisitorio) che il principio del giusto processo e proteggendo al contempo il diritto costituzionalmente garantito di difesa.
Assistiamo infatti ad un “cambio di passo” rispetto ai principi espressi nella Sentenza della Cassazione prima enunciata ma anche nella Sentenza della Corte Costituzionale n.199 del 14/07/2017, la quale, nel respingere la questione di legittimità costituzionale dell’art.58 comma 2 (vecchia formulazione) per violazione degli artt.3, 24 e 117 della Costituzione “sia in sé che in relazione al comma 1 della stessa norma”, posta della Commissione tributaria regionale della Campania, prende posizione e decide rigettando (seppur da più parti ci fossero opinioni assolutamente contrastanti) l’incostituzionalità della norma, negando di fatto la natura allegatoria, dispositiva e sinallagmatica del processo (basato sul “chiesto e provato”, il giudice non deve fare altro che decidere in base alle prove e i documenti nonché i fatti espressi dalle parti).
Mi spiego meglio:
se è vero che non esiste un principio rigido di uniformità tra il processo civile e quello tributario, è anche vero che consentire di produrre in secondo grado una prova che ben poteva essere prodotta nel primo grado di giudizio significa non solo realizzare un’evidente compressione del diritto di difesa di una delle due parti, ma anche soprattutto consentire quanto meno una perdita di un grado di giudizio a discapito di una generale esigenza di snellezza e razionalità del sistema giudiziario a prescindere dal rito in cui ci troviamo a svolgere la nostra professione( civile, tributario o amministrativo), a pensarci bene infatti questa interpretazione non è i contraddizione , come da talune parti si voglia sostenere, con la natura “rinnovatoria” del processo di appello che può essere inopinatamente tale solo in ipotesi circoscritte, ovvero quando si pronunci su un eccezione rimasta assorbita in primo grado oppure quando si dovesse pronunciare su un’eccezione rilevabile d’ufficio. Diversamente opinando dovremmo cancellare quasi con un colpo di spugna la previsione normativa di cui all’art.7 del D.lgs. 546/92 nel cui comma 5 bis si disciplina l’onere della prova a carico dell’amministrazione pubblica, individuandola quale attore sostanziale nell’ambito del processo, in sostanziale aderenza ai principi contenuti nella Sentenza della Corte Costituzionale n.109 del 2007 nella quale ben si spiega non solo la natura dispositiva del processo tributario ma dove si definiscono quelli che sono i poteri del Giudice che mai possono travalicare fino al punto di ordinare la produzione di documenti quasi a volersi atteggiare quale longa manus della Pubblica Amministrazione.
Si nega, nella sentenza citata, pietra miliare del processo tributario, e che ogni difensore dovrebbe tenere a portata di mano nello svolgimento della professione dinanzi le Corti di Giustizia, il potere officioso del giudicante che mai deve sopperire ad eventuali mancanze o negligenze della parte.
La pronuncia è assolutamente coerente con tutto l’impianto normativo tributario così come attualmente concepito, rispetto al quale l’intervenuta abrogazione del comma 3 dell’art.7 del D.lgs. 546/92 in forza del quale “si consentiva ai giudici tributari di ordinare alle parti di depositare documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”, non fa altro che rafforzare la concezione di processo tributario quale dispositivo e rispetto al quale il conseguente corollario risulta essere la circostanza secondo cui lo stesso Giudice Tributario non dovrebbe avere il potere di ammettere la produzione di nuovi documenti in appello, secondo questa visione l’unico modo possibile e giusto di interpretare la novella normativa di cui quest’oggi discorriamo è quello di aderire all’individuazione della indispensabilità nella sua accezione più ristretta!
In realtà, secondo tale interpretazione, la norma rinnovata andrebbe interpretata facendo attenzione alla congiunzione disgiuntiva utilizzata dal Legislatore: “ovvero”, laddove in detta previsione si nasconde (in maniera neanche tanto celata) l’insidia della aleatorietà della decisione, per cui ci potremmo spingere fino ad affermare che se al posto di “ovvero” ci fosse stata una mera congiunzione forse i fautori della indispensabilità ristretta avrebbero maggiore conforto.
In definitiva, ad interpretare in maniera “ristretta” il concetto di indispensabilità si porrebbe in essere quasi la stessa previsione normativa di cui all’art.345 cpc, ovvero i casi di riammissione nel secondo grado di giudizio sarebbero ristretti a quelle eventualità in cui la nuova prova non sia stata prodotta per causa non imputabile alla parte.
Secondo la tesi che qui mi sento di appoggiare la prova ammissibile sarebbe solo quella che emergerebbe dalla stessa sentenza di primo grado, ovvero quella la cui utilità o necessarietà nel processo di primo grado non era stata proprio considerata; ragionare in tal senso consentirebbe di ad espungere dal secondo grado tutte quelle prove o documenti che la parte, per mera strategia processuale, o peggio ancora per mera negligenza non avesse prodotto nel primo grado di giudizio pur potendo farlo.
D’altro canto secondo una visione d’insieme dei principi attualmente portanti delle norme tributarie nel complesso modificate od introdotte ex novo dalle riforme attuate, non si può non evidenziare il corto circuito che si andrebbe a creare nel momento in cui si consentisse una produzione in appello di prove secondo un visione meno draconiana del divieto, infatti se è vero che, con l’introduzione del comma 5 bis all’art.7 del D.lgs. 546/92 il Giudice è tenuto (“deve” e non “può”) ad annullare l’atto impositivo se la parte che intende far valere i propri diritti (la parte pubblica) non prova in giudizio i fatti costitutivi della pretesa, come potrebbe il giudice di secondo grado consentire a quella stessa parte di produrre nel successivo grado di giudizio prove a sostegno della propria tesi superando le preclusioni processuali, non solo dell’art.58 , ma anche dell’art.32 del .D.LGS 546/92. Sarebbe come far rivivere il comma 3 dell’art.7 del D.lgs. 546/92 che consentiva al Giudicante di “ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”, oltre a minare fortemente il concetto di processo tributario quale dispositivo.
Probabilmente, ma lo diciamo sottovoce, avrebbe eliminato un po’ di problemi la mancata previsione nell’art.58 dell’inciso ”salvo che il Collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa”, senza aver paura di sacrificare la verità materiale a discapito della verità processuale, in quanto, dando per assunta la diligenza e serietà delle parti dovrebbero poter essere ammesse in secondo grado solo quelle prove o quei documenti di cui la parte dimostri di non esserne stata nelle condizioni di poter produrre ed eliminando in tale guisa qualsiasi nocumento alla parte incolpevole , ad avvalorare tale tesi vi è il terzo comma della disposizione normativa di cui oggi si relaziona, secondo il quale mai si può consentire, in nessun caso, l’ingresso nel giudizio di secondo grado di “deleghe, procure, altri atti di conferimento di potere che siano rilevanti ai fini della legittimità degli atti, notifiche degli atti impugnati degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità”.
A tal proposito tuttavia è d’obbligo una riflessione, in quanto, attesa la nuova concezione di litisconsorzio necessario dettato dall’art.14 del D.Lgs 546/92 nuova formulazione, nel caso di giudizi introdotti prima dell’entrata in vigore della riforma, concernenti l’impugnazione di un atto della riscossione per mancata notifica dell’atto presupposto laddove nel giudizio la parte avesse chiamato in causa solo l’ente riscossore e non anche l’ente impositore, e quest’ultimo non abbia fatto ingresso nel processo in primo grado, una volta costituitasi in secondo grado dovrebbe necessariamente imbattersi nella preclusione di cui all’art.58 nuova formulazione.
Non possiamo, da ultimo, per dovere di trattazione, omettere di esaminare l’eventuale pregiudizio che si potrebbe verificare nel caso in cui il giudizio venga definito in sede di discussione della domanda di sospensione, ovvero in ossequio al neo-introdotto art.47-ter del D.Lgs 546/92, venga emessa la sentenza in forma semplificata, in tale caso la decisione potrebbe essere emessa prima che le parti potessero, non solo depositare proprie memorie, ma conoscere finanche le controdeduzioni di controparte ( nel caso in cui il Collegio ritenga di poter decidere in forma semplificata “trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso”), risulta evidente il forte vulnus al diritto di difesa nel momento in cui la parte sia costretto ovviamente a subire in secondo grado il divieto imposto dall’art.58.
Risulta evidente come in tale caso però il Giudicante ben potrebbe consentire l’ingresso di nuove prove e documenti che in questo caso, sì che potrebbero essere giustamente ritenute indispensabili.
Un’ultima riflessione:
ulteriore pregiudizio alla parte è da ricercare nella criticità legata all’entrata in vigore della novella legislativa, sul punto, infatti, le parti che avessero introdotto il giudizio di secondo grado in epoca antecedente al 04 gennaio 2024, confidando nella possibilità di poter produrre nuovi documenti nel successivo grado di giudizio, così come consentito dalla previgente formulazione della norma, avrebbe un sicuro pregiudizio imbattendosi nello sbarramento attuale.
Non ci resta che attendere e verificare se i rinnovati strumenti normativi saranno consoni a realizzare il principio di parità di armi tra i duellanti all’interno della dialettica processuale, e l’attuazione del “giusto processo” faro da cui mai il Legislatore nonché la magistratura tributaria (come riqualificata) dovrebbero discostarsi!

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A cura di Giulia D’Andrea

Nell’ambito della recente riforma della giustizia tributaria non si può prescindere dall’esaminare, al fine di una più intima comprensione delle innovazioni legislative introdotte, ciò da cui tutto ha avuto inizio, ovvero la L. n.111 del 09 agosto 2023, con cui si sono dettate le linee guida e i principi ispiratori dell’attuale riforma e a cui il Legislatore, nel rispetto di quanto dettato dall’art.76 della Costituzione, si è attenuto (o almeno avrebbe dovuto attenersi) nel concepire e porre in essere le norme di attuazione della delega.
In particolare, il Legislatore delegante nell’art.19 della menzionata legge, alla lett.d, ha previsto che venga “rafforzato il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo”, è quindi in tale previsione legislativa che è da ricercare la genesi dell’attuale formulazione dell’art.58 del D.lgs. 546/92.
Accanto ad un generale divieto nel produrre nuove prove in appello nella previgente formulazione dell’art.58 comma 1 si faceva salva la possibilità da parte del Giudice Tributario di ammetterle nel caso in cui “le ritenesse necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio”, nel contempo era sempre possibile “produrre per le parti nuovi documenti”.
Dalla lettura di tale previsione normativa si evince icto oculi che in realtà più che rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti in appello, il legislatore è stato investito della facoltà di introdurre ex novo un generale divieto alla produzione di nuovi documenti (unitamente al divieto già esistente di produzione di nuovi mezzi di prova) prima non sussistente.
La norma previgente attuava un’evidente dicotomia tra “nuove prove “e “nuovi documenti”, laddove le prime non erano suscettibili di ammissione a meno che non si fosse ravvisata ad insindacabile parere del Giudicante una necessità delle stesse ai fini della decisione, e per i secondi invece si riscontrava una generale ammissione indiscriminata nel secondo grado di giudizio.
Il 04 gennaio 2024 è entrato in vigore l’art.58 del D.lgs. 546/92 così come modificato dal D.lgs. 220/2023 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 04 gennaio 2024:
di seguito la norma rubricata “Nuove prove in appello” così come modificata:
    1. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile
   2. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio nel primo grado, da cui emergono vizi degli atti o provvedimenti impugnati.
   3. Non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis.

L’intento del Legislatore delegante, in ossequio alla delega ricevuta e in ossequio, vale la pena di ricordarlo, al principio direttivo contenuto della l.30 dicembre 1991, n.413, da cui è scaturito il D.lgs. 546/92, secondo cui il processo tributario avrebbe dovuto adeguarsi a quello civile, era forse quello di avvicinarsi all’art.345 c.p.c.?
A dire il vero, se per un verso nel rito tributario, al pari di quello civile, si è introdotto un generale divieto a produrre in secondo grado nuove prove e nuovi documenti, seppur con i temperamenti che vedremo nel corso della trattazione, per un altro verso si assiste ad un’apertura da parte del Legislatore delegante tributario, che “consente” al collegio di valutare l’indispensabilità della nuova prova o dei nuovi documenti nel secondo grado di giudizio al fine di ammetterli nel processo, stessa previsione che era prevista nel rito civile ma che è stata espunta con la riforma operata dal d.l.22 giugno del 2012, n.83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n.134.
Ne consegue che, se volessimo continuare nell’ottica di comparazione dei due riti, si è assistito con l’attuale riforma ad un passo indietro rispetto all’attuale preclusione draconiana contenuta nell’art.345 cpc, quasi a voler affermare (pensiero assolutamente condivisibile) una rinnovata identità del processo tributario per troppo tempo considerato quasi come una giurisdizione di serie minore; l’attuale riforma a cui stiamo assistendo invece, a partire dalle modifiche già attuate nel 2022, è tesa a conferire non solo autonomia ma anche dignità ed autorevolezza ad un processo che svolge un’indubbia funzione sociale ed economica.
Il riferimento è, ad esempio, all’introduzione del comma 5 bis dell’art.7 del D.gs 546/92 con cui finalmente anche nel rito tributario si ha una norma in grado di disciplinare la distribuzione dell’onus probandi all’interno della dialettica processuale senza far ricorso al corrispondente (in tema di prova) art.2697 del codice civile.
Per ritornare all’oggetto della trattazione odierna, la ratio della norma è da ricercare nella peculiarità del processo tributario nel quale indubbiamente la prova documentale riveste una preminente importanza rispetto ad altri riti laddove si riscontra, purtroppo, l’assenza di una fase dedicata all’espletamento dei mezzi istruttori e nel quale si è sempre più alla ricerca della verità materiale rispetto alla verità processuale.
La domanda che ora dobbiamo porci è se tale esigenza è da considerare preminente rispetto alla necessità di avere precise e rigide preclusioni processuali atte a garantire non solo il sacrosanto diritto di difesa degli individui garantito dall’art.24 della Costituzione ma anche perseguire una ragionevole durata del processo unitamente ad un giusto ed equo processo, o se non può essere ravvisata una “terza via” che consenta di far emergere la verità dei fatti all’interno del processo tributario ma che non sia di pregiudizio alla parte che ha osservato diligenza e correttezza contrapposta a quella che invece ha sottovalutato l’importanza del primo grado!
Nell’analizzare la semantica utilizzata dal legislatore dobbiamo fare una comparazione tra la previgente formulazione dell’art.58 e l’attuale testo normativo, laddove, se è vero che ad oggi viene assolutamente negata la possibilità indiscriminata di produrre nuovi documenti in appello precedentemente consentita, è anche vero che se ne consente l’entrata nel processo al sopraggiungere di determinate condizioni che sono rimesse, stante l’attuale formulazione letterale della norma, alla discrezionalità dell’organo giudicante.
Per meglio dire:
se prima per consentire l’ingresso di nuove prove il Collegio doveva valutarne la necessarietà ai fini processuali, oggi leggiamo un altro aggettivo, ovvero la nuova prova o il nuovo documento, per entrare nel secondo grado di giudizio, devono possedere il connotato di indispensabilità.
In tale scenario risulta evidente come sia centrale approfondire il concetto di prova indispensabile comparandola con il concetto di prova necessaria precedentemente espresso dal Legislatore.
necessaria quella prova che risulta determinante per la definizione del giudizio, ovvero utile alla formulazione della sentenza e alla decisione della controversia, è invece indispensabile la prova senza la quale il processo non può essere oggetto di definizione, è tale la prova assolutamente necessaria, dirimente; c’è un sottile confine tra i due concetti, è come se dovessimo immaginare uno scalino intermedio tra l’una e l’altra concezione.
È naturalmente rimessa alla sensibilità giuridica del Giudice la valutazione dell’indispensabilità della prova rammentando che ne esistono due interpretazioni:
la prima meno rigida e la seconda più ristrettiva tanto da farla denominare di “indispensabilità ristretta”, l’ispirazione è fornita dalla Sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n.10790 del 2017, sentenza quanto mai attuale in quanto, seppur disciplinante ratione temporis un caso di applicazione dell’art.345 cpc nella formulazione antecedente la modifica apportata nel 2012, si appalesa oggi più che mai attuale ed utile a fornirci una valida interpretazione, sia ai fini della corretta interpretazione dell’art.437 comma cpc e art.702 quater stesso codice, nonché ai fini dell’attuale formulazione dell’art.58 del D.Lgs 546/92, in riferimento chiaramente al concetto di “prova indispensabile”.
Nella citata sentenza i Supremi Giudici, nello statuire circa l’interpretazione della locuzione “prova indispensabile”, si interrogano se debba intendersi tale la prova “dotata di un’influenza causale decisiva rispetto alle altre prove per la decisione della controversia, tale da dissipare lo stato di incertezza oppure solo quella che sia divenuta utile e necessaria per effetto delle valutazioni su risultanze istruttorie di primo grado esposte nella sentenza appellata”, ma prima ancora di evidenziare le due interpretazioni possibili puntualizzano cosa debba intendersi per “prova nuova”: è tale la prova avente ad oggetto un “fatto nuovo” allegato per la prima volta in appello, ma anche quella destinata ad evidenziare un fatto già allegato in primo grado, è evidente che è più semplice l’interpretazione della prima previsione in quanto ricadremmo nell’ipotesi di prova di cui la parte non avesse la disponibilità nel primo grado, più controversa invece la soluzione della seconda interpretazione.
Ciò premesso la Corte di Cassazione, nell’esprimersi circa questa seconda ipotesi, evidenzia due orientamenti.
Il primo: il concetto di indispensabilità è inteso come “influenza causale più incisivo della rilevanza, di talché è tale quella prova che contribuisce a dare un apporto decisivo all’accertamento della verità materiale, assolutamente necessaria, decisive a d accertare la verità, tale che da sola è in grado di dirimere la controversia, in modo da superare le preclusioni istruttorie di primo grado e colmi le lacune del materiale istruttorio ivi raccolto, il tutto senza dare rilievo alle eventuali preclusioni in cui la parte sia incorsa anche se per propria negligenza”.
La seconda tesi invece denominata di “indispensabilità ristretta”: “nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si sia formata. Ciò che la decisione asserisce a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che nel contraddittorio di primo grado non era neanche apprezzabile come utile e necessario”.

Per la verità sarebbe coerente, in quanto maggiormente aderente ai principi ispiratori di tutta la riforma attuale, discostandoci dalla pronuncia anzidetta, aderire all’interpretazione ristretta della indispensabilità della prova, salvaguardando sia il concetto di processo tributario quale dispositivo e allegatorio (e non inquisitorio) che il principio del giusto processo e proteggendo al contempo il diritto costituzionalmente garantito di difesa.
Assistiamo infatti ad un “cambio di passo” rispetto ai principi espressi nella Sentenza della Cassazione prima enunciata ma anche nella Sentenza della Corte Costituzionale n.199 del 14/07/2017, la quale, nel respingere la questione di legittimità costituzionale dell’art.58 comma 2 (vecchia formulazione) per violazione degli artt.3, 24 e 117 della Costituzione “sia in sé che in relazione al comma 1 della stessa norma”, posta della Commissione tributaria regionale della Campania, prende posizione e decide rigettando (seppur da più parti ci fossero opinioni assolutamente contrastanti) l’incostituzionalità della norma, negando di fatto la natura allegatoria, dispositiva e sinallagmatica del processo (basato sul “chiesto e provato”, il giudice non deve fare altro che decidere in base alle prove e i documenti nonché i fatti espressi dalle parti).
Mi spiego meglio:
se è vero che non esiste un principio rigido di uniformità tra il processo civile e quello tributario, è anche vero che consentire di produrre in secondo grado una prova che ben poteva essere prodotta nel primo grado di giudizio significa non solo realizzare un’evidente compressione del diritto di difesa di una delle due parti, ma anche soprattutto consentire quanto meno una perdita di un grado di giudizio a discapito di una generale esigenza di snellezza e razionalità del sistema giudiziario a prescindere dal rito in cui ci troviamo a svolgere la nostra professione( civile, tributario o amministrativo), a pensarci bene infatti questa interpretazione non è i contraddizione , come da talune parti si voglia sostenere, con la natura “rinnovatoria” del processo di appello che può essere inopinatamente tale solo in ipotesi circoscritte, ovvero quando si pronunci su un eccezione rimasta assorbita in primo grado oppure quando si dovesse pronunciare su un’eccezione rilevabile d’ufficio. Diversamente opinando dovremmo cancellare quasi con un colpo di spugna la previsione normativa di cui all’art.7 del D.lgs. 546/92 nel cui comma 5 bis si disciplina l’onere della prova a carico dell’amministrazione pubblica, individuandola quale attore sostanziale nell’ambito del processo, in sostanziale aderenza ai principi contenuti nella Sentenza della Corte Costituzionale n.109 del 2007 nella quale ben si spiega non solo la natura dispositiva del processo tributario ma dove si definiscono quelli che sono i poteri del Giudice che mai possono travalicare fino al punto di ordinare la produzione di documenti quasi a volersi atteggiare quale longa manus della Pubblica Amministrazione.
Si nega, nella sentenza citata, pietra miliare del processo tributario, e che ogni difensore dovrebbe tenere a portata di mano nello svolgimento della professione dinanzi le Corti di Giustizia, il potere officioso del giudicante che mai deve sopperire ad eventuali mancanze o negligenze della parte.
La pronuncia è assolutamente coerente con tutto l’impianto normativo tributario così come attualmente concepito, rispetto al quale l’intervenuta abrogazione del comma 3 dell’art.7 del D.lgs. 546/92 in forza del quale “si consentiva ai giudici tributari di ordinare alle parti di depositare documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”, non fa altro che rafforzare la concezione di processo tributario quale dispositivo e rispetto al quale il conseguente corollario risulta essere la circostanza secondo cui lo stesso Giudice Tributario non dovrebbe avere il potere di ammettere la produzione di nuovi documenti in appello, secondo questa visione l’unico modo possibile e giusto di interpretare la novella normativa di cui quest’oggi discorriamo è quello di aderire all’individuazione della indispensabilità nella sua accezione più ristretta!
In realtà, secondo tale interpretazione, la norma rinnovata andrebbe interpretata facendo attenzione alla congiunzione disgiuntiva utilizzata dal Legislatore: “ovvero”, laddove in detta previsione si nasconde (in maniera neanche tanto celata) l’insidia della aleatorietà della decisione, per cui ci potremmo spingere fino ad affermare che se al posto di “ovvero” ci fosse stata una mera congiunzione forse i fautori della indispensabilità ristretta avrebbero maggiore conforto.
In definitiva, ad interpretare in maniera “ristretta” il concetto di indispensabilità si porrebbe in essere quasi la stessa previsione normativa di cui all’art.345 cpc, ovvero i casi di riammissione nel secondo grado di giudizio sarebbero ristretti a quelle eventualità in cui la nuova prova non sia stata prodotta per causa non imputabile alla parte.
Secondo la tesi che qui mi sento di appoggiare la prova ammissibile sarebbe solo quella che emergerebbe dalla stessa sentenza di primo grado, ovvero quella la cui utilità o necessarietà nel processo di primo grado non era stata proprio considerata; ragionare in tal senso consentirebbe di ad espungere dal secondo grado tutte quelle prove o documenti che la parte, per mera strategia processuale, o peggio ancora per mera negligenza non avesse prodotto nel primo grado di giudizio pur potendo farlo.
D’altro canto secondo una visione d’insieme dei principi attualmente portanti delle norme tributarie nel complesso modificate od introdotte ex novo dalle riforme attuate, non si può non evidenziare il corto circuito che si andrebbe a creare nel momento in cui si consentisse una produzione in appello di prove secondo un visione meno draconiana del divieto, infatti se è vero che, con l’introduzione del comma 5 bis all’art.7 del D.lgs. 546/92 il Giudice è tenuto (“deve” e non “può”) ad annullare l’atto impositivo se la parte che intende far valere i propri diritti (la parte pubblica) non prova in giudizio i fatti costitutivi della pretesa, come potrebbe il giudice di secondo grado consentire a quella stessa parte di produrre nel successivo grado di giudizio prove a sostegno della propria tesi superando le preclusioni processuali, non solo dell’art.58 , ma anche dell’art.32 del .D.LGS 546/92. Sarebbe come far rivivere il comma 3 dell’art.7 del D.lgs. 546/92 che consentiva al Giudicante di “ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”, oltre a minare fortemente il concetto di processo tributario quale dispositivo.
Probabilmente, ma lo diciamo sottovoce, avrebbe eliminato un po’ di problemi la mancata previsione nell’art.58 dell’inciso ”salvo che il Collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa”, senza aver paura di sacrificare la verità materiale a discapito della verità processuale, in quanto, dando per assunta la diligenza e serietà delle parti dovrebbero poter essere ammesse in secondo grado solo quelle prove o quei documenti di cui la parte dimostri di non esserne stata nelle condizioni di poter produrre ed eliminando in tale guisa qualsiasi nocumento alla parte incolpevole , ad avvalorare tale tesi vi è il terzo comma della disposizione normativa di cui oggi si relaziona, secondo il quale mai si può consentire, in nessun caso, l’ingresso nel giudizio di secondo grado di “deleghe, procure, altri atti di conferimento di potere che siano rilevanti ai fini della legittimità degli atti, notifiche degli atti impugnati degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità”.
A tal proposito tuttavia è d’obbligo una riflessione, in quanto, attesa la nuova concezione di litisconsorzio necessario dettato dall’art.14 del D.Lgs 546/92 nuova formulazione, nel caso di giudizi introdotti prima dell’entrata in vigore della riforma, concernenti l’impugnazione di un atto della riscossione per mancata notifica dell’atto presupposto laddove nel giudizio la parte avesse chiamato in causa solo l’ente riscossore e non anche l’ente impositore, e quest’ultimo non abbia fatto ingresso nel processo in primo grado, una volta costituitasi in secondo grado dovrebbe necessariamente imbattersi nella preclusione di cui all’art.58 nuova formulazione.
Non possiamo, da ultimo, per dovere di trattazione, omettere di esaminare l’eventuale pregiudizio che si potrebbe verificare nel caso in cui il giudizio venga definito in sede di discussione della domanda di sospensione, ovvero in ossequio al neo-introdotto art.47-ter del D.Lgs 546/92, venga emessa la sentenza in forma semplificata, in tale caso la decisione potrebbe essere emessa prima che le parti potessero, non solo depositare proprie memorie, ma conoscere finanche le controdeduzioni di controparte ( nel caso in cui il Collegio ritenga di poter decidere in forma semplificata “trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso”), risulta evidente il forte vulnus al diritto di difesa nel momento in cui la parte sia costretto ovviamente a subire in secondo grado il divieto imposto dall’art.58.
Risulta evidente come in tale caso però il Giudicante ben potrebbe consentire l’ingresso di nuove prove e documenti che in questo caso, sì che potrebbero essere giustamente ritenute indispensabili.
Un’ultima riflessione:
ulteriore pregiudizio alla parte è da ricercare nella criticità legata all’entrata in vigore della novella legislativa, sul punto, infatti, le parti che avessero introdotto il giudizio di secondo grado in epoca antecedente al 04 gennaio 2024, confidando nella possibilità di poter produrre nuovi documenti nel successivo grado di giudizio, così come consentito dalla previgente formulazione della norma, avrebbe un sicuro pregiudizio imbattendosi nello sbarramento attuale.
Non ci resta che attendere e verificare se i rinnovati strumenti normativi saranno consoni a realizzare il principio di parità di armi tra i duellanti all’interno della dialettica processuale, e l’attuazione del “giusto processo” faro da cui mai il Legislatore nonché la magistratura tributaria (come riqualificata) dovrebbero discostarsi!